Ora che l’uragano Ida è ormai un ricordo, gli scienziati del clima cercano di capire se è stato o meno influenzato dal cambiamento climatico indotto dall’uomo. La tempesta, di categoria 4, si è intensificata rapidamente sulle calde acque del Golfo del Messico, prima di atterrare in Louisiana domenica 29 agosto, a 16 anni esatti dal giorno in cui l’uragano Katrina, di categoria 3, aveva devastato lo stato.

Gli studi che cercano i collegamenti tra eventi meteorologici estremi e i cambiamenti climatici richiedono tempo per essere accertati, ma almeno in un caso è stato trovato e riguarda le forti piogge collegate con l’uragano Harvey del 2017.

Le tempeste tropicali come Ida sono alimentate dall’evaporazione dell’acqua di mare. Agosto è già di per sé caldo nel Golfo del Messico e quest’anno la superficie dell’oceano era di 0,3°C al di sopra della media a lungo termine.

Spiega Alex Baker dell’università di Reading: «Ida si è spostato su una parte del Golfo del Messico dove la superficie del mare era molto calda, ecco perché si è rapidamente intensificato. Anche se è molto difficile da quantificare, tuttavia sembra certo che poiché il cambiamento climatico indotto dall’uomo ha portato il Golfo del Messico a una temperatura superiore alle medie, l’uragano Ida che vi è passato sopra è stato influenzato da tutto ciò».

Katherine Hayhoe, della Texas Tech University di Lubbock, sottolinea: «Sia chiaro, il cambiamento climatico non ha causato l’uragano Ida. Ma è praticamente certo che abbia peggiorato le cose». Anche se gli uragani sono ben prevedibili e dunque l’evacuazione delle persone risparmia vittime, i danni possono comunque essere ingenti. Le stime preliminari degli analisti assicurativi Wells Fargo & Co di San Francisco, in California, dicono che Ida potrebbe costare agli assicuratori 15 miliardi di dollari.

Nave a emissioni zero

La prima nave in grado di solcare i mari senza emettere inquinanti è stata varata e ha compiuto un riuscito viaggio di prova. Una nave che possiede anche un altro elemento di interesse: non necessita di equipaggio. Il mezzo, lungo circa 80 metri e largo 15, è stato costruito dalla società norvegese Yara International e se l’elaborazione dei dati darà il totale assenso, il primo vero viaggio di lavoro dovrebbe avvenire entro la fine del 2021 e collegherà due città della Norvegia. Yara International nacque nel 1905 con lo scopo di trovare soluzioni alla crescente carestia che si stava manifestando in Europa.

Percorrendo tale strada Yara si specializzò nella produzione di fertilizzanti e fu la prima società al mondo a creare un fertilizzante azotato, che attualmente rimane la sua principale attività commerciale. Nel corso degli anni Yara si è dedicata anche a trovare strade per ridurre le emissioni nocive all’uomo e all’ambiente e pratiche agricole sostenibili. E così, per combattere gli ossidi di zolfo e gli ossidi di azoto tossici emessi dai motori diesel delle navi, la società norvegese ha creato la Yara Marine Technologies, una società che ha come obiettivo il trasporto delle merci via mare limitando al minimo l’inquinamento.

Nel 2017, nasceva il concetto di una nave senza equipaggio e senza inquinamento marino, idea che è diventata realtà quest’anno. La nave Yara Birkeland, che prende il nome dal ricercatore norvegese che ha scoperto la capacità di aggiungere azoto ai fertilizzanti, sta galleggiando nel mare di fronte alla Norvegia e nei prossimi mesi dovrebbe realizzare il suo primo viaggio autonomo tra Herøya a Brevik. Yara potrà viaggiare ad una velocità di 13 nodi, circa 24 chilometri all’ora, e a pieno carico sarà in grado di trasportare 60 container di fertilizzanti.

Inquinamento e salute mentale

Secondo uno studio pubblicato sul British Journal of Psychiatry vi è una chiara relazione tra l’aggravamento di chi possiede importanti problemi di salute mentale e l’esposizione a livelli elevati di inquinamento atmosferico.

Stando a quanto riferiscono i ricercatori, livelli elevati di biossido di azoto portano le persone con disturbi psicotici e dell’umore come schizofrenia, bipolarismo e depressione, a problematiche molto superiori rispetto a chi vive in ambienti con inquinamento più basso.

Entrando nei dettagli, gli scienziati del King’s College e dell’Imperial College di Londra hanno trovato che, tenendo sotto controllo per anni circa 14mila pazienti, le persone esposte a un aumento di 15 microgrammi per metro cubo (µg/m³) dei livelli di biossido di azoto in un anno, rispetto alla media di 40 µg/m³ hanno un rischio maggiore del 18 per cento di essere ricoverati in ospedale e una possibilità maggiore del 32 per cento di richiedere cure ambulatoriali.

L’aumento del particolato (altro sottoprodotto della combustione dei combustibili fossili) di 3 µg/m³ nel corso di un anno, su una media di 14,5 µg/m³ porterebbe ad una crescita del rischio del 7 per cento per le cure ambulatoriali e dell’11 per cento per le cure ospedaliere. La certezza del fenomeno è legata al fatto che la situazione è rimasta tale anche dopo sette anni dall’inizio degli studi. Nonostante la ricerca sia stata realizzata in una sola città del pianeta, Londra, può essere applicata a tutte le città dove l’inquinamento atmosferico è simile a quello londinese.

La vita sui pianeti Hycean

La ricerca della vita extraterrestre si basa principalmente su parametri che riguardano la vita sulla Terra. L’obiettivo della maggior parte delle ricerche di vita aliena punta sull’analisi di mondi rocciosi simili alla Terra che si trovano a una distanza specifica dalla stella ospite che possa permettere acqua liquida e temperature vivibili. Ma non è detto che le cose debbano essere proprio così. Ad esempio: perché escludere che vi possano essere forme di vita su mondi anche molto diversi dal nostro?

Un gruppo di astronomi ha identificato una classe di pianeti che potrebbero rivelarsi idonei proprio a ciò: si tratterebbe di esopianeti (ossia pianeti di altre stelle) rivestiti da un oceano globale, con atmosfere ricche di idrogeno. Se ciò trovasse conferma sarebbe una strada molto interessante da seguire perché tali esopianeti sono più numerosi, nelle rilevazioni planetarie, rispetto a quelli rocciosi del tutto simili alla Terra.

I ricercatori hanno coniato un nuovo termine per identificarli: Hycean. Spiega Nikku Madhusudhan dell’istituto di astronomia dell’università di Cambridge: «Alcune delle condizioni negli oceani di questi mondi potrebbero essere analoghe a quelle che rendono abitabili gli oceani della Terra, cioè temperature e pressioni simili, presenza di acqua liquida ed energia dalla stella. Certo ci sono molte domande aperte, ma questa è solo una prima ipotesi in questa fase della ricerca. Il presupposto è che se la vita acquatica microbica può formarsi in quegli oceani nello stesso modo in cui si è prodotta sulla Terra, allora anche alcune delle biofirme (ossia testimonianze di vita) potrebbero essere comuni».

Ad oggi, sono quasi 4.500 gli esopianeti identificati e confermati al di là del nostro sistema solare. I dati del telescopio spaziale a caccia di pianeti Kepler suggeriscono che il tipo più comune di esopianeta è quello che non abbiamo nemmeno nel Sistema solare: si tratta di mini Nettuno, che possiedono un raggio che va da circa 1,6 fino a 4 volte quello terrestre.

Queste caratteristiche si traducono in pianeti con una densa atmosfera ricca di idrogeno e molto probabilmente con un oceano liquido al di sotto di essa. Ricerche precedenti suggerivano che la pressione su questi mondi sarebbe stata troppo alta per supportare la vita come la conosciamo. Ma l’anno scorso Madhusudhan e colleghi hanno pubblicato un articolo sul mini Nettuno K2-18b, dove descrivono condizioni ambientali che potrebbero rendere il pianeta abitabile. Ora hanno ampliato quella ricerca definendo i parametri in base ai quali i mini Nettuno potrebbero supportare la vita. I mondi Hycean vivibili, stando alle ricerche di Madhusudhan, possono avere fino a 2,6 volte la dimensione della Terra e fino a 10 volte la sua massa.

La fascia di vivibilità di questi pianeti (ossia la distanza minima e massima a cui ruotare attorno alla stella madre) è molto più ampia rispetto ai pianeti rocciosi. Gli esopianeti Hycean possono avvicinarsi alla loro stella fino al punto che le temperature atmosferiche raggiungono i 200°C o a distanze alle quali un pianeta roccioso vedrebbe l’acqua in superficie (se ci fosse) completamente e perennemente ghiacciata. «L’effetto serra prodotto dall’idrogeno molecolare (H2) infatti, è tale che il pianeta può ruotare molto lontano dalla stella e avere ancora condizioni abitabili sulla superficie. Per un’atmosfera di un pianeta simile alla Terra, invece, i principali gas serra come, H2O e CO2, sarebbero già congelati a distanze molto più piccole, rendendo la superficie congelata e non abitabile», ha spiegato Madhusdhan.

Grazie a una zona abitabile molto più vasta, è possibile che esista una grande varietà di pianeti all’interno della categoria dei Hycean. Mondi molto vicini alle loro stelle potrebbero essere bloccati nella loro rotazione dalle forze di marea tali da avere sempre un lato rivolto verso la stella e dunque dovrebbero essere classificati come esopianeti “dark Hycean”, dove la vita potrebbe sopravvivere solo sul lato notturno. I mondi “cold Hycean” invece, sarebbero quelli a distanze più elevate, dove riceverebbero relativamente poca luce, calore e radiazioni. Il lavoro futuro potrebbe essere quello di cercare eventuali biofirme. Questi possono essere ozono, ossigeno e metano, ma anche cloruro di metile e solfuro di metile. Il James Webb Space Telescope, che verrà lanciato entro la fine dell’anno, sarà in grado di svolgere questo compito molto bene, ma altri telescopi attualmente operativi possono già cercare la presenza di acqua e altri elementi. Primo fondamentale passo per l’esistenza della vita.

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