Bentornati, lettrici e lettori di Domani, alla newsletter ambientale Areale, che si è presa una pausa estiva e poi se l’è lasciata alle spalle, come talvolta capita anche alle cose belle. Cominciamo? Cominciamo.

Questo è il primo numero di Areale dopo l’estate, che è stata calda, intensa, preoccupante, ma spero anche rigenerante e riposante. Mancano 57 giorni alla Cop26 di Glasgow e l’Italia non ha ancora un inviato o un’inviata per il clima. Il ministro Di Maio lo aveva promesso per settembre, il ministro Cingolani non si è espresso sull’argomento, in compenso – come sapete – ha dichiarato che gli ambientalisti radical chic sono quasi peggio della crisi climatica. Qui, come sempre, il link per iscrivervi gratuitamente.

Transizione ecologica da salotto

Come scrive Fabio Ciconte, Cingolani sembra essere sulla stessa linea di Matteo Salvini e della sua retorica sugli ambientalisti da salotto. Di solito, quando si usa l’espressione «radical chic», qualunque cosa voglia dire, si sceglie una scorciatoia concettuale, è l’equivalente italiano del «woke» americano, lo dici per suggerire che gli altri sono ingenui, impreparati, vittime del loro candore.

Questo è l’ambientalismo secondo il ministro, aggiungo che questa è però anche la società civile che dovrà convincere alla Cop26 di Glasgow. E forse è un altro motivo per sdoppiare la parte diplomatica del suo lavoro, da qui l’urgenza di un inviato italiano per il clima, che dovrebbe comunque arrivare all’inizio del mese, magari mentre leggete questa newsletter (bisogna sempre coltivare la speranza).

In conclusione, come dice sempre Ciconte, se non ci fosse stato tutto quello che lui chiama ambientalismo oltranzista, probabilmente non sarebbe nemmeno stato creato il ministero che lui ha inaugurato. Da tempo, più che un ministro per fare la transizione ecologica, sembra un ministro per proteggerci dalla transizione ecologica, o comunque per spuntarla, smorzarla, attenuarla.

Le lezioni di Ida

Ci sono poco meno di 2.300 chilometri tra Port Fourchon e Manhattan, è la strada percorsa da Ida, che ha toccato terra in Louisiana come uragano di categoria 4 (su 5) e ha proseguito la corsa verso nordest come tempesta tropicale. Il conteggio delle vittime è ancora inesatto, ma sembrano essercene tante sulla costa atlantica degli Usa – fatte quando ormai Ida stava perdendo forza – quante in Louisiana, dove si è abbattuto con una furia spaventosa. Ida non è stato il peggior uragano degli Stati Uniti secondo nessun parametro, ma nei suoi vari passaggi è stato quasi un manuale sulla crisi climatica e contiene una serie di lezioni importanti sui nuovi eventi estremi.

1. Della prima vi parlavo in questo articolo del 31 agosto: la sua rapida intensificazione. Da un punto di vista tecnico è l’aumento nella velocità del vento di 35 miglia orarie (56 km/h) in 24 ore. È la soglia oltre la quale si deve davvero avere paura e prepararsi al peggio: Ida l’ha superata in sei ore, nelle 24 ore la sua velocità è aumentata di 65 miglia orarie (104 kmh), quasi il doppio della soglia del terrore. Questa rapidità ha sballato le tempistiche di evacuazione, ed è qualcosa che abbiamo visto anche con i flash flood in Germania o in Cina di questa estate. La velocità di questi eventi richiede tempi di reazione nuovi.

2. Tra le immagini più impressionanti del passaggio di Ida a New York ci sono stati gli allagamenti della metropolitana, scale che sembravano rapide, fontane d’acqua ai tornelli, binari come torrenti. Queste sono infrastrutture pensate per un altro secolo e per un altro clima. E non vale solo per New York, mesi fa avevo affrontato la questione della resilienza urbana al clima delle città italiane (partendo dal rapporto Città Clima di Legambiente), la più vulnerabile all’acqua è Roma e uno dei suoi punti più critici sono le linee della metropolitana e in particolare gli ingressi, che sono stati anche il grande problema nel passaggio di Ida a New York.

3. Quando nel 2012 Sandy travolse la città, l’acqua arrivava dall’Oceano Atlantico, era il cosiddetto storm surge, l’innalzamento delle acque costiere causato da una tempesta. Con Ida invece è l’acqua venuta tutta dal cielo, dall’alto, ed è il problema che potrebbe presentarsi anche a Roma. Un’analisi della Regional Plan Association proprio il mese scorso aveva stabilito che a New York il 20 per cento degli ingressi della metropolitana erano a rischio inondazione in un evento da «una volta ogni secolo», che oggi i dati ci dicono possa verificarsi tra cinque o dieci volte al secolo.

I problemi di Tesla in Germania

C’è una storia che spiega bene le complessità della transizione ecologica in un’economia avanzata ed è quella della nuova Gigafactory che Tesla sta provando ad aprire in Germania, la prima in Europa e parte di un tassello in ogni caso decisivo per l’elettrificazione del nostro stile di vita. I principali nemici di questo progetto però sono i movimenti ambientalisti locali. La fabbrica a Grünheide, nel Brandenburg, non lontano da Berlino, dovrebbe produrre, a regime, 500mila veicoli elettrici all’anno e nelle promesse di Elon Musk dovrebbe diventare anche la più grande fabbrica di batterie al mondo.

Doveva aprire a luglio, siamo a settembre e non è ancora successo, perché è da mesi al centro di uno scontro tesissimo con le associazioni del territorio.

Il primo problema, e forse il principale, è il consumo di acqua nella fabbrica, in una regione che sta affrontando la limitatezza di questa risorsa (siccità per tre anni di fila). Secondo un’inchiesta della Zdf, la Gigafactory consumerà 3,6 milioni di metri cubi di acqua all’anno, il 30 per cento del consumo della regione, numeri che Musk ha contestato.

Tra i motivi che hanno agitato gli ambientalisti c’è anche l’abbattimento di una foresta di conifere per fare spazio al sito e il disturbo ecosistemico a specie delicate come serpenti e lucertole.

Durante una visita alla fabbrica in costruzione, accompagnato da Armin Laschet, candidato conservatore alle elezioni di settembre, Musk ha promesso che la produzione inizierà nel mese di ottobre, ma – nonostante l’ingente investimento – è ancora tutto appeso alle autorizzazioni (Musk ha deciso di correre il rischio di iniziarne la costruzione basandosi su permessi temporanei) e a centinaia di azioni legali che sono state intentate contro Tesla. Tutti i grandi partiti politici tedeschi (Verdi compresi) appoggiano la sua costruzione, che dovrebbe anche creare 12mila posti di lavoro.

Un disastro al largo della Siria

C’è un disastro ecologico in corso nel Mediterraneo orientale, nelle acque tra la Siria, la Turchia e Cipro del Nord, in una delle aree più geopoliticamente complesse del mondo, con tutti i problemi operativi che ne conseguono.

Tutto è nato a causa di un guasto al serbatoio di una centrale termica e raffineria a Baniyas, nella Siria nordoccidentale: 15mila metri cubi di carburante sono finiti in mare, a oggi hanno creato una marea nera con una superficie di 800 chilometri quadrati, in viaggio verso le coste della Turchia e di Cipro del Nord, la parte separata dal Sud nel 1974 e politicamente riconosciuta e sostenuta soltanto dalla Turchia.

L’onda di carburante siriano ha viaggiato per giorni verso l’incontaminata la penisola di Karpaz, il suo percorso è soggetto all’andamento di venti e correnti, ed è stato monitorato per tutta la settimana: la situazione sembrava inizialmente catastrofica per Cipro del Nord, a metà della settimana però i venti hanno girato allontanando l’enorme macchia di carburante dalla costa: i danni per l’ecosistema marino rimangono, soprattutto ora che il carburante rischia di disperdersi e affondare.

Baniyas e la penisola di Karpaz distano circa 130 chilometri, la situazione, dopo le prime notizie del disastro e quando le immagini satellitari hanno mostrato che le dimensioni del danno erano ben superiori a quanto attestato nelle notizie ufficiali fornite dal governo siriano, era sembrata subito una corsa contro il tempo, nella quale le principali speranze erano affidate al vento più che alla capacità umana di arginare il problema. In ogni caso, Il governo di Ankara aveva inviato due navi in soccorso per iniziare a raccogliere questa enorme perdita, mentre a Cipro del Nord hanno costruito una barriera per proteggere la costa e le spiagge.

Intanto la situazione in Siria è già disastrosa, le voci raccolte dalla Cnn raccontano che il danno è superiore alle forze del paese in questo momento storico. «Non puoi pulire il mare con delle spugne», ha detto un testimone. Secondo il Regional Marine Pollution Emergency Response Centre for the Mediterranean Sea, quasi la metà di questa massa di carburante (circa il 44 per cento) è finito sul tratto di costa siriana tra Baniyas e Jableh, a nord della raffineria.

È la seconda marea nera che nel 2021 colpisce quest’area del Mediterraneo orientale, dopo quella che si è sviluppata per una perdita di greggio al largo della costa di Israele a febbraio scorso e che ha creato ingenti danni ecologici sulle coste di Gaza, di Israele e del Libano. In quel caso la marea nera era stata causata dalla perdita della petroliera Emerald in viaggio tra l’Iran e la Siria.

Le due storie sono un ulteriore campanello d’allarme sui rischi di progetti di sviluppo e sfruttamento petrolifero in un bacino chiuso come il Mediterraneo, soprattutto quando le infrastrutture (come la petroliera o la centrale siriana) sono obsolete e ricevono poca manutenzione per i motivi più diversi. La centrale siriana di Baniyas è il principale sito produttivo siriano di carburanti ed è uscita in condizioni disastrose dai lunghi anni della guerra. Anche se la costa di Cipro del Nord non sarà colpita, potrebbero volerci almeno tre mesi solo per valutare la portata dell’impatto di questa nuova perdita nel Mediterraneo, i cui effetti sull’ecosistema marino potrebbero essere avvertiti per almeno quindici anni.

Classici verdi

C’è un nuovo canone per la letteratura ecologista. Probabilmente ognuno di voi ha ormai il suo scaffale, i suoi autori e autrici di riferimento, le sue idee in merito. La casa editrice Penguin ha in un certo senso deciso di ufficializzare editorialmente questo canone, con una nuova serie chiamata Green Ideas.

C’è un po’ di tutto, c’è il pamphlet di Greta Thunberg, c’è il classico fondativo di Rachel Carson Silent Spring, c’è Michael Pollan, c’è Wendell Berry, c’è il pioniere dell’agricoltura sostenibile Masanobu Fukuoka. «Sentiamo tutti di trovarci in una nuova era del discorso e della preoccupazione ambientale. Il fatto che ci fosse già un canone di libri che potessero essere classificati come classici è allo stesso tempo intrigante e scioccante», ha detto Sam Voulters, brand director di Penguin Classics. Un altro modo per sottolineare che non potevamo in nessun modo dire di non sapere cosa stava succedendo alla Terra, viene scritto da cinquant’anni almeno. I libri li trovate qui.

Una buona notizia

Ci salutiamo con una bella notizia, che arriva dal Wwf e viene dal progetto LIFE Lynx: la prima prova che una delle linci rilasciate nelle Alpi slovene si è riprodotta, spalancando le probabilità di sopravvivenza della specie in questa parte dell’Europa. L’hanno avvistata due escursionisti: tre cuccioli di lince con la loro madre Aida, rilasciata nell’area nel 2021. Le linci sono tra gli animali più difficili da avvistare in natura, ancor più raro è osservare una femmina in compagnia dei suoi cuccioli. Bravi! Il progetto LIFE Lynx, cofinanziato dall’Unione europea, ha come obiettivo la conservazione della lince nelle montagne dinariche e nelle Alpi sudorientali.

Per questa settimana è tutto, sarei curioso di conoscere il vostro canone letterario ambientale, i libri che hanno aperto, espanso, plasmato la vostra visione dell’ecologia e del futuro della presenza umana sulla Terra. Mandatemeli a ferdinando.cotugno@gmail.com.

Per comunicare con Domani, invece, la mail è lettori@editorialedomani.it

A presto!

Ferdinando Cotugno

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