Oltre 1.400 morti tra Indonesia, Sri Lanka, Thailandia, Vietnam e Malesia. La strage causata dai cicloni Senyar e Ditwah avviene a pochi giorni dalla chiusura della Cop30, dove il divario tra impatti climatici e diplomazia appare enorme, visto l’esito del negoziato sui fondi per l’adattamento dei paesi più vulnerabili
In una settimana il conteggio dei morti causati dalle alluvioni in Asia meridionale ha continuato a crescere: al 3 dicembre 2025 sono almeno 1.400, ma il presidente dello Sri Lanka, Anura Kumara Dissanayake, ha detto che è ancora troppo presto per stimare il numero di vittime. Ci sono migliaia di dispersi e milioni di edifici distrutti in diversi paesi: Indonesia, Sri Lanka, Thailandia, Vietnam, Malesia. Dissanayake ha parlato del «più impegnativo disastro naturale della storia recente dello Sri Lanka».
La fase più drammatica di quella che è, in generale, una delle peggiori crisi idrogeologiche degli ultimi decenni è iniziata alla fine di novembre, quando si sono combinati monsoni, cicloni tropicali e alti livelli di umidità atmosferica. A rendere eccezionale questa sequenza non è solo la violenza delle precipitazioni, ma l’origine stessa delle tempeste.
Il ciclone Senyar si è formato nello stretto di Malacca (tra Sumatra e la Malesia) a soli 3,8° a nord dell’equatore, una latitudine dove la rotazione terrestre è di solito troppo debole per consentire la nascita di un ciclone: un fenomeno simile non si vedeva dal 2001. Al Senyar si sono poi aggiunti il tifone Koto e il ciclone Ditwah, dando vita a una configurazione anomala di sistemi tropicali. Sull’isola di Sumatra la combinazione tra Senyar e Koto ha prodotto piogge torrenziali in poche ore, mentre Ditwah ha seguito una traiettoria rarissima lungo la costa orientale dello Sri Lanka.
Gli effetti del caldo estremo e dell’uomo
A preparare il terreno per queste tempeste estreme sono state anche le condizioni atmosferiche degli anni precedenti. Il 2024 è stato l’anno più caldo da quando si effettuano le misurazioni e il continente asiatico si sta scaldando quasi il doppio della media globale.
Scienziati e scienziate non possono attribuire in tempo reale gli eventi meteorologici estremi al cambiamento climatico, ma il meccanismo è noto: oceani più caldi forniscono più energia alle tempeste e un’atmosfera più calda trattiene più umidità – circa il 7 per cento in più per ogni grado Celsius – aumentando l’intensità delle precipitazioni. «Anche se il numero totale delle tempeste non cresce di tanto, gravità e imprevedibilità sì», ha spiegato Benjamin Horton, professore di scienze della Terra alla City University di Hong Kong.
Ad alimentare questa sequenza di eventi estremi è stata anche una combinazione di fattori meteorologici: l’Oceano Pacifico in fase la Niña, che raffredda le acque orientali e scalda quelle occidentali – verso Indonesia e Australia – intensificando i monsoni; e il dipolo dell’Oceano Indiano in fase negativa, un’oscillazione naturale delle temperature superficiali che porta acque calde vicino a Indonesia e Malesia, creando un serbatoio di vapore che alimenta ulteriormente le tempeste. In questo quadro agisce il riscaldamento globale, che amplifica i fenomeni già esistenti.
Anche fattori umani hanno aggravato i danni: in Indonesia i video di tronchi trascinati dalle acque mostrano il ruolo della deforestazione, mentre in Sri Lanka lo sviluppo incontrollato ha cementificato sponde fluviali e zone costiere che un tempo assorbivano le piogge.
A differenza di Indonesia e Thailandia – economie a medio reddito con una maggiore capacità di mobilitare operazioni di soccorso – lo Sri Lanka affronta questa crisi con risorse estremamente limitate e in un momento in cui le ripercussioni economiche rischiano di essere pesantissime.
Il paese ha appena ritrovato una fragile stabilità ed è tuttora sotto un programma di salvataggio del Fondo monetario internazionale, ma in queste condizioni a pagare il prezzo più alto sono sempre le fasce più deboli della società. «Quando accade un disastro come questo, i poveri e le comunità marginalizzate sono i più colpiti», ha denunciato Sarala Emmanuel, ricercatrice sui diritti umani a Batticaloa, nella regione orientale dello Sri Lanka.
La devastazione in Asia arriva a pochi giorni dalla chiusura della Cop30 e il divario tra impatti climatici e diplomazia appare enorme. Alla conferenza Onu di Belém si sarebbe dovuto definire un accordo per mobilitare 1.300 miliardi di dollari annui entro il 2035 a favore dei paesi più vulnerabili alla crisi climatica.
Invece i governi si sono limitati a promettere il triplo dei fondi per l’adattamento, portandoli a 120 miliardi di dollari l’anno entro il 2035. Nel 2023 gli stanziamenti erano stati appena 26 miliardi di dollari, una cifra pari a quanto l’Asia-Pacifico perde già oggi ogni anno solo per le inondazioni costiere.
L’impegno preso a Belém è comunque accompagnato da un linguaggio debole e privo di indicazioni chiare su meccanismi e fonti di finanziamento e l’obiettivo è stato posticipato di cinque anni rispetto alla scadenza originaria del 2030, rinviando ancora una volta gli obblighi dei paesi sviluppati.
Per molti stati vulnerabili non è abbastanza. Lo stesso vale per il Fondo Onu per perdite e danni: dei 790 milioni annunciati, solo 397 sono stati effettivamente versati, una cifra simbolica a fronte di bisogni che superano i 100 miliardi l’anno.
© Riproduzione riservata



