Per la Cina la transizione verde è una rivoluzione e la rivoluzione – come insegna uno dei più celebri aforismi di Mao – «non è un pranzo di gala».

Per raggiungere la neutralità carbonica nel 2060, passando per il picco delle emissioni di Co2 nel 2030, la Repubblica popolare cinese avrà bisogno anzitutto di soldi, tanti soldi: 21.000 miliardi di dollari – secondo uno studio dell’Università Tsinghua di Pechino – per liberare la sua economia dalla schiavitù dei combustibili fossili e centrare gli obiettivi annunciati all’Assemblea generale delle Nazioni unite dal presidente Xi Jinping.

Con oltre 10 miliardi di tonnellate all’anno, la Cina detiene il triste primato mondiale delle emissioni di gas serra. Ma la lotta ai cambiamenti climatici coincide con la sua nuova strategia economica della “doppia circolazione” (guónèi guójì shuāng xúnhuán), che punta sul mercato interno come futuro motore di crescita, una “autarchia” che passa anche dalla riduzione delle importazioni di idrocarburi e dallo sviluppo della green economy.

Croce e delizia di un sistema industriale per il quale ha rappresentato finora l’unico propellente abbondante in patria, affidabile e a basso costo, nel 2021 il carbone ha generato il 64 per cento dell’energia del paese, seguito dalle centrali idroelettriche (16 per cento), dai parchi solari (8 per cento), dagli impianti eolici (7 per cento) e dal nucleare (5 per cento).

Le stime dell’Agenzia internazionale per l’energia (Iea) indicano che la crescita del fabbisogno energetico della Cina rallenterà mediamente del 4,5 per cento nei prossimi tre anni per effetto della riduzione della domanda globale e dell’efficientamento delle fabbriche, e che le energie pulite vi ricopriranno un ruolo sempre più importante: da loro arriverà il 70 per cento dell’incremento di energia (da 530 gigawatt nel2020 a 930 gigawatt nel 2024).

Secondo l’ultimo Electricity Market Report della Iea, nel 2024 il peso del carbone nel mix energetico nazionale scenderà al 59 per cento.

Tassonomia green universale

Seppur contestata dagli ecologisti radicali al grido «troppo poco, troppo tardi», la lotta ai cambiamenti climatici è diventata una delle priorità politiche di Pechino, che in quest’ambito sta costruendo una promettente collaborazione con Bruxelles.

Cina e Unione europea hanno rafforzato la cooperazione sulla finanza verde (della quale sono, assieme agli Stati uniti, i principali mercati globali), che svolgerà un ruolo essenziale nel sostenere la trasformazione in chiave green delle rispettive infrastrutture industriali, energetiche e dei trasporti.

Il 4 novembre scorso, a margine della conferenza Cop26 di Glasgow, la International Platform on Sustainable Finance (18 membri, tra cui Cina e Ue, che assieme producono il 55 per cento delle emissioni di gas serra) ha pubblicato un rapporto che, per la prima volta, chiarisce che cosa, a Pechino e a Bruxelles, s’intenda per investimenti “verdi”.

Il “Common Ground Taxonomy-Climate Mitigation Report” esamina similitudini e differenze di screening ambientale tra la Cina e l’Ue in 80 attività economiche.

Il report evidenzia, ad esempio, che l’Ue ha regole più severe della Cina sulla produzione di acciaio e ferro, mentre i due blocchi sono ugualmente affidabili per quanto riguarda l’energia eolica e la Cina è avanti in quella fotovoltaica. Ora gli investitori hanno una guida per dirigere i loro fondi verso canali verdi “certificati”, evitando le trappole del greenwashing.

La guida della Banca centrale

Il modello di governance cinese della finanza verde è gerarchico, guidato dal Partito comunista, che emana le direttive, a cui è sottoposto il Consiglio di stato (il governo), che vara le relative politiche che vengono tradotte in provvedimenti da parte della Banca centrale (che stabilisce le regole per l’emissione di green bond da parte delle banche cinesi), del ministero delle Finanze, della Commissione nazionale per lo sviluppo e le riforme (Ndrc) che soprintende alle obbligazioni delle aziende di stato, del ministero dell’Ambiente, dell’autorità bancaria, e di quella finanziaria e assicurativa.

Il varo, nel 2016, da parte di queste sette agenzie delle “Linee guida per un sistema di finanza verde” è considerato il momento in cui in Cina è nata la finanza verde. Un sistema diretto dallo stato (con un ruolo rilevantissimo attribuito alla Pboc) ma che – secondo il governo di Pechino – nell’allocazione delle risorse risponde alle esigenze del mercato.

La Banca centrale pubblica ogni anno un catalogo dei programmi (divisi per settore e con la descrizione dei criteri da soddisfare) per finanziare i quali è possibile emettere green bond. Dall’ultimo documento per la prima volta è stato escluso il carbone “pulito”, e la convergenza del “catalogo” con la “tassonomia” dell’Ue ha fatto sì che a Pechino e Bruxelles abbiano già iniziato a lavorare a una “tassonomia universale”.

Negli ultimi anni sono stati tanti i progetti finanziati: si va dalle gigantesche turbine eoliche a largo di Fuqing (nella provincia del Fujian), entrate in funzione da un paio di mesi e costate quasi 1 miliardo di dollari per garantire l’elettricità a 20mila famiglie eliminando 939 tonnellate di emissioni di C02 all’anno; al parco fotovoltaico appena installato sulle acque di un allevamento ittico nel bacino del Fiume giallo nella contea di Yinchuan, nella regione del Ningxia.

Come da tradizione, anche in questo caso le riforme procedono partendo da sperimentazioni, per le quali sono state designate come aree “pilota” le province dello Zhejiang, del Jiangxi, del Guangdong, del Guizhou del Gansu e la regione del Xinjiang.

Non tutti i green bond sono verdi

Oltre ai green bond, la finanza verde cinese prevede anche “prestiti verdi” (di cui la Cina è il primo mercato, con oltre 1.500 miliardi di dollari erogati nel 2019), ovvero credito agevolato per gli investimenti non inquinanti concesso soprattutto dalle banche di stato; assicurazioni verdi, che devono sottoscrivere le industrie a maggior impatto ambientale; fondi d’investimento governativi verdi, che raccolgono capitali e li convogliano in progetti ecosostenibili.

I green bond made in China l’anno scorso hanno raccolto 94,77 miliardi di dollari, che secondo gli analisti finanziari nel 2022 dovrebbero lievitare dell’80 per cento, fotografando una tendenza globale affermatasi negli ultimi anni che vede gli investitori sempre più attratti da questi prodotti finanziari.

Secondo Climate Bonds Initiative (Cbi), nel 2021 poco più di un terzo (35,89 miliardi di dollari) delle obbligazioni verdi emesse dalla Cina era in linea con gli standard internazionali: due su tre sono andati a finanziare progetti che erano poco verdi o non lo erano affatto.

Tuttavia gli stessi dati pubblicati da Cbi segnalano un mercato maturo, nel quale le principali emittenti di green bond sono state rispettivamente: società finanziarie (39,22 per cento), compagnie private (32,18), banche di sviluppo (14,33) e aziende di stato (12,57).

Per l’anno in corso Ing prevede acquisti di green bond per circa 700 miliardi di dollari nel mondo. In Cina un ruolo di primo piano lo svolgeranno le banche, che – in linea con una politica monetaria più espansiva per sostenere la ripresa economica – concederanno più credito ai progetti verdi.

Come dicevamo, non sarà una passeggiata. I blackout che nei mesi scorsi hanno colpito fabbriche e famiglie in ampie aree del paese sono stati causati anche dalla mancanza di energia causata dai tagli al carbone da parte delle autorità locali (per ridurre le emissioni di Co2) in una fase di boom della domanda globale di prodotti cinesi.

E la risposta del governo è stata d’intensificare le importazioni di carbone dall’estero. Se l’economia cinese dovesse continuare a rallentare, molti progetti potrebbero essere messi nel cassetto, perché per il partito la stabilità sociale viene prima di tutto.

Tuttavia il progressivo allineamento agli standard internazionali dei green bond cinesi, la promessa di Xi Jinping che le aziende cinesi non costruiranno più centrali a carbone all’estero, l’inaugurazione nel luglio scorso a Shanghai del mercato di scambio di quote di emissioni più grande del mondo, la crescita globale delle borse di Shanghai e Shenzhen (le due piazze principali per i prodotti finanziari green cinesi) sono tutti passaggi che dovrebbero permettere una maggiore trasparenza e anche incoraggiare la partecipazione degli operatori stranieri alla rivoluzione verde della Cina.

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