Buongiorno, questo è un nuovo numero di Areale e lo iniziamo celebrando due ricorrenze importanti. Partiamo da quella che mi sta più a cuore dal punto di vista personale, vi va?

L’estate del razzo

Oggi, se leggete Areale il sabato quando arriva, o in ogni caso il 5 giugno, sono dieci anni che non c’è più Ray Bradbury. Ricorderò per sempre il momento in cui ho letto la notizia e avvertito il cratere che lasciava in un mondo senza più la sua voce. Bradbury ha rappresentato così tanto che è difficile racchiudere la sua essenza in una definizione, però ci provo: buona parte della fantascienza classica ci racconta in che modo avremmo potuto fare le cose più improbabili, Bradbury raccontava perché avremmo dovuto farle, oppure perché avremmo dovuto non farle. E il pensiero sul perché messo sopra il pensiero del come è già un pensiero ambientalista. Non: come funziona il razzo? Ma: perché esiste quel razzo? Fantascienza esistenziale, emotiva, sentimentale.

Mi è venuto in mente pensando alle sue Cronache marziane, e al racconto che le introduce, scritto prima che nascessero i miei genitori, ambientato quando frequentavo il liceo, nel 1999.

Si intitola Rocket Summer, L’estate del razzo, è stato scritto quando nessuno poteva immaginare i cambiamenti climatici. È la storia del primo decollo nella prima colonizzazione umana di Marte, osservato dalla prospettiva di una piccola città nel Midwest.

«Fino a un istante prima era ancora l’inverno dell’Ohio». Iniziano così le Cronache Marziane. Era inverno, ma la temperatura sprigionata dal razzo, dalla fame di conquista degli umani e dalla tecnologia che avevano inventato per riuscirci trasformò in un istante quell’inverno dell’Ohio in estate. «Una marea d’aria calda, quasi che qualcuno avesse lasciato aperta la porta di una panetteria. Il calore pulsava tra le casette, i cespugli, i ragazzi». È questa la rocket summer, l’estate del razzo: l’inverno che scompare per lasciare spazio alla conquista. «The rocket made climates», scrive Bradbury nel 1947. «Il razzo faceva i climi». Quaranta anni dopo ci sarebbe arrivata anche la scienza.

I ventotto racconti che compongono le Cronache Marziane sono la storia dell’umanità che abbandona la Terra dopo averla resa inabitabile. Sono anche la storia dell’umanità che non ha imparato nulla dal disastro che l’ha spezzata, della sua coazione a ripetere, conquistare per depredare. Quella di Marte è una colonizzazione che va per ondate, «spedizioni», incontra la resistenza di una comunità indigena, è una parabola sull’avidità, sull’importanza del limite, sull’incapacità di darcene uno, sul colonialismo, sulle risorse.

Eppure Ray Bradbury era un umanista e un ottimista, un cercatore di tutto quello che non è inferno, per usare le parole di Italo Calvino, di tutto quello che vale la pena di essere salvato. C’è un racconto che si intitola Cadrà dolce la pioggia. Una catastrofe nucleare ha infine spazzato via la popolazione umana, ma una casa automatica continua a prendersi cura dei suoi abitanti perduti, le cui uniche vere tracce sono i corpi impressi sui muri dal calore, come a Hiroshima e Nagasaki.

La casa prepara la colazione per le ombre, apparecchia la tavola, sceglie i vestiti, legge loro delle poesie, finché una tempesta la distrugge e rimane in piedi solo un muro, che continua a ripetere la data di oggi, all’infinito. La poesia che la casa legge a noi che non esistiamo più è di Sara Teasdale, e fu scritta nel 1918.

«Nessuno saprà della guerra,
nessuno si curerà infine quando tutto sarà compiuto,
né albero, né uccello
farà caso all’umanità morente;
e la stessa primavera,
quando si leva all’alba
appena s’accorgerà che ce ne siamo andati».

L’eredità di Stoccolma e la Giornata dell’ambiente

Il 5 giugno è anche la Giornata mondiale per l’ambiente. Si celebra in questa data perché esattamente cinquant’anni fa si tenne la Conferenza di Stoccolma. Il 5 giugno è una delle tante date di nascita dell’ambientalismo contemporaneo. Se esistono le Cop, l’accordo di Parigi, l’Unfcc, l’intera architettura della diplomazia climatica e ambientale, lo dobbiamo a quelle due settimane di lavori intitolate United Nations conference on the human environment.

Erano gli anni della prima consapevolezza che qualcosa stava andando storto, che l’ambiente non era uno sfondo statico, un contesto colorato e vegetale per le vicende della storia umana, ma qualcosa che si poteva spezzare, rompere e che poteva travolgerla, quella storia, rendendo irrilevante qualsiasi sviluppo, conflitto, conquista. Nel 1972 avevamo anche visto per la prima volta la Terra: in senso letterale, con la foto scattata dall’Apollo 17, il Blue Marble. Era l’estetica del miracolo, un immenso spazio nero e poi noi, con tutto quel blu.

Foto Blue Marble

Nel 1962 era uscito Primavera silenziosa di Rachel Carson. A Londra lo smog aveva fatto una strage, la petroliera Torrey Canyon aveva devastato la Manica, il fiume Cuyahoga continuava a bruciare in Ohio, il Sahel iniziava a sperimentare la siccità cronica. Insomma, ce ne stavamo accorgendo e Stoccolma 1972 fu la prima volta in cui provammo a parlarne tra amici, il prequel del prequel di Glasgow 2021, Parigi 2015, Berlino 1995, Rio 1992.

Celebriamo quella conferenza internazionale come la storia del fatto che sapevamo, che sapevamo da tanto tempo, e comunque ci abbiamo messo un po’ anche solo per iniziare a decidere di agire. E celebriamo l’azione stessa, i suoi princìpi, la speranza di pace che contiene. Erano ovviamente gli anni della Guerra fredda, l’intuizione svedese fu che la protezione dell’ambiente sarebbe stata anche un modo per far cooperare i blocchi divisi dalla cortina di ferro e dalla minaccia nucleare, un’idea che – tra tantissime fragilità – è ancora alla base di tutte le nostre speranze. (A Stoccolma, alla fine, i paesi del blocco sovietico non parteciparono in segno di protesta contro l’esclusione della Germania est, ma presero parte a tutti i lavori preparatori).

La Conferenza produsse un piano d’azione in 109 raccomandazioni per i governi e cinque risoluzioni, che chiedevano: il bando alle armi nucleari, una raccolta dati congiunta sullo stato dell’ambiente, il collegamento tra sviluppo e ambiente, un cambio di governance internazionale, e la creazione di un fondo internazionale per l’ambiente. Ci sarebbero voluti altri trent’anni anche solo per iniziare a parlarne davvero, a Rio, nel 1992. Il programma Onu di protezione per l’ambiente (Unep) nacque però poco dopo, lì partì anche il viaggio per la moratoria internazionale contro la caccia alle balene. E la Conferenza produsse anche la Dichiarazione di Stoccolma.

Articolo 1: «L’uomo è creatura e modellatore del suo ambiente. Nel corso della lunga e tortuosa evoluzione della razza umana su questo pianeta abbiamo raggiunto un livello per il quale, attraverso la rapida accelerazione della scienza e della tecnologia, l’uomo ha acquisito il potere di trasformare il suo ambiente in innumerevoli modi e su una scala senza precedenti. Entrambi gli aspetti dell’ambiente umano, il naturale e l’artificiale, sono essenziali al nostro benessere e al godimento dei diritti umani più basilari, compreso quello alla vita stessa». Il resto si legge qui.

Buona giornata dell’ambiente!

Nuovi negazionismi climatici

In Italia il negazionismo sui cambiamenti climatici è quello un po’ freak che è entrato in scena davanti agli studenti del liceo Rosmini di Grosseto il 1 giugno: personaggi fuori dall’accademia o ai suoi margini, inverificabili teorie sull’influsso della luna sul clima, previsioni di una prossima èra glaciale. Cose così. È il rumore bianco di ogni stagione di shock e cambiamenti, quello ben sperimentato durante la pandemia o la campagna vaccinale.

Dagli Stati Uniti invece arrivano segnali di un’evoluzione del negazionismo molto più articolata, adulta e preoccupante, che potremmo definire come realismo fossile estremo. Il suo portabandiera è un personaggio ormai noto. Si chiama Alex Epstein, è un turboliberista ultra libertario che già nel 2014 aveva pubblicato un saggio intitolato The Moral Case for Fossil Fuels («Dalla parte dei combustibili fossili per ragioni morali») (...).

Ora è uscito il suo nuovo libro, un’esplorazione ancora più profonda di quel rabbit hole, si intitola Fossil Future, è stato pubblicato da una delle più importanti case editrici al mondo (Penguin Random House) e il sottotitolo spiega in modo se non altro chiaro come è fatto il futuro fossile che Epstein ha in mente per noi: «Perché lo sviluppo umano globale richiede più petrolio, più carbone e più gas naturale, e non di meno». Non c’è dubbio che quel saggio finirà sulle scrivanie di parecchi Ceo nel mondo della vecchia energia.

Per Epstein lo sviluppo fossile è un imperativo morale e chiunque si opponga o provi a ridurre le emissioni di gas serra è «uno stupido, un genocida, un razzista, è anti umano e anti scienza,  è uno che preferirebbe far scivolare miliardi di persone nella povertà o farle morire, e solo per il bene della natura». Ora, questa è una retorica interessante, molto diffusa, affiora in circoli molto più legittimi dei libri di Epstein, la voce che dice: siete euro-centrici, razzisti, non pensate all’Africa e ai suoi bisogni energetici (il continente col 3 per cento delle emissioni e il peggiore dei danni della crisi climatica, dove una siccità devastante rischia di uccidere oggi 350mila bambini in Somalia).

In ogni caso, è interessante la parabola umana che c’è dietro la presunta retorica anti-razzista del nuovo campione del realismo fossile. Ne ha scritto il Washington Post, che ha tirato fuori articoli di quando Epstein frequentava la Duke University e scriveva per una testata del college della quale era direttore ed editore. Per Epstein le culture non occidentali sono semplicemente inferiori a quelle occidentali. Potrebbe anche essere un caso di cancel culture a scoppio ritardato, il gioco delle vendette incrociate nell’accademia americana praticato tirando fuori frasi vecchie di decenni, ma Epstein, più di vent’anni dopo, non ha nessuna intenzione di ritrattare il suo razzismo culturale: «Continuo a pensare che la cultura occidentale sia superiore», ha detto in un video pubblicato su YouTube in risposta all’articolo sul Washington Post.

Epstein e le sue tesi sono molto ascoltate dalla politica americana, il partito repubblicano lo ha invitato a testimoniare per tre volte al Congresso, le sue idee sono sempre più citate dai politici nei dibattiti pubblici. A giugno parlerà a una conferenza organizzata da Chevron. Il suo attivismo comunicativo e la sua aggressività intellettuale ne hanno fatto un anello di congiunzione tra industria, politica e pubblico negli Stati Uniti, in un momento estremamente delicato, tra guerra, inflazione ed elezioni di mid-term in arrivo.
Come ogni negazionista climatico a ogni latitudine, Epstein non vuole essere definito negazionista climatico. La sua critica però parte proprio dal «sistema della conoscenza» – giornali, scienziati, Nazioni Unite – e nel corso dei prossimi anni questo tipo di ragionamenti diventerà sempre più diffuso.

Michael E. Mann ha descritto il ciclo attuale di chi si oppone all’azione per il clima parlando della metamorfosi da negazionismo a inattivismo, la posizione di chi riconosce la scienza dei cambiamenti climatici ma non l’urgenza della transizione. Il libro e l’attenzione ricevuta da Epstein dimostrano però che l’inattivismo sta compiendo tutto il suo giro e sta tornando a essere negazionismo in senso stretto, incartato intorno all’accusa per la scienza del clima di essere ideologia o addirittura religione, con l’idea che ci sia un grande complotto dietro, e con la proposta finale non di rallentare la riduzione delle emissioni ma di fermarla del tutto.

Finlandia anno zero: una buona notizia

Ci salutiamo con una buona notizia. Arriva dalla Finlandia, sempre più paese aspirazionale, che ha fissato per legge il più ambizioso obiettivo climatico tra tutti i paesi sviluppati: emissioni zero nel 2035 e poi addirittura emissioni negative (quindi assorbendo più di quanto si emette) a partire dal 2040. La Finlandia ha uno dei governi con l’età media più bassa in Europa e probabilmente questo modifica le prospettive e l’approccio al futuro, in ogni caso il piano è di raggiungere lo zero netto in anticipo di quindici anni rispetto al resto dell’Unione europea e agli Stati Uniti.

L’obiettivo è stato deciso da un gruppo di lavoro indipendente coordinato dal Finnish climate change panel. Hanno calcolato che, in base alle emissioni storiche del paese e alla sua popolazione, la giusta quota di emissioni a disposizione della Finlandia nei prossimi anni per dare al mondo una chance di rimanere entro 1.5°C sarebbe stata di 420 GT. Hanno fatto i calcoli, hanno visto che sarebbe esaurita nel 2035 e quello per Helsinki sarà l’anno zero.

È la prima volta che l’obiettivo climatico di un paese viene deciso anche in base a princìpi di giustizia climatica transnazionale. Gli obiettivi climatici della Finlandia verranno raggiunti senza fare ricorso alla finanza internazionale dei carbon offset, cioè pagando paesi in via di sviluppo per ridurre le emissioni al posto loro, e anche questo è importante. La ministra dell’Ambiente finlandese si chiama Emma Kari, ha 39 anni, viene dal partito dei Verdi, ha scritto un libro sui rischi della pesca intensiva. Ne sentiremo parlare.

Anche per questa settimana è tutto, grazie per aver letto fin qui, per parlare di Ray Bradbury scrivetemi a ferdinando.cotugno@gmail.com, per comunicare con Domani l’indirizzo è lettori@editorialedomani.it.

A sabato prossimo!

Ferdinando Cotugno

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