Con la guerra in Ucraina e la transizione energetica appesa a un filo, la costruzione di un lungo oleodotto transfrontaliero in Africa orientale sta diventando la battaglia simbolo dell’ambientalismo contemporaneo, il totem invalicabile della giustizia climatica.

Il tubo si chiama Eacop – East African Crude Oil Pipeline – un’infrastruttura che nasce per trasportare il petrolio scoperto nel lago Alberto in Uganda fino al porto di Tanga, sulla costa dell’oceano Indiano, in Tanzania. Lunghezza 1.443 chilometri, portata prevista a regime oltre 200mila barili di petrolio, per un impatto sull’atmosfera di 34 milioni di tonnellate di Co2 all’anno.

Lo stanno costruendo un’azienda francese, TotalEnergies, che è il principale produttore europeo di oil and gas, e una cinese, la China National Offshore Oil Corporation, con il sostegno convinto ed entusiasta del governo dell’Uganda, dove il presidente in carica, Yoweri Museveni, è al potere dal gennaio del 1986. 

Fuori tempo massimo

Le organizzazioni ambientaliste locali e internazionali denunciano come Eacop sia un progetto di sviluppo petrolifero fuori tempo massimo nell’èra del net zero e della decarbonizzazione. Il mandato della scienza, di cui si è fatto carico come messaggero l’Onu, è di dimezzare le emissioni di Co2 entro la fine di questo decennio, tra otto anni, proprio quando l’oleodotto diventerebbe operativo.

Negli ultimi anni anche un’istituzione conservatrice come l’Agenzia internazionale dell’energia ha preso posizione: se l’intenzione di decarbonizzare è reale, e non sulla carta, le estrazioni attuali di petrolio, gas e carbone sono già sufficienti. Tutti i nuovi impianti – come Eacop – vanno nella direzione opposta.

L’oleodotto è diventato un simbolo perché ha una serie di difficoltà tecniche e logistiche che sarebbero scoraggianti anche se non dovessimo abbattere le emissioni e rappresenta l’ostinazione del modello di sviluppo basato sui combustibili fossili. Il petrolio sarebbe estratto dal lago più interno di un paese senza sbocchi sul mare e in parte dentro un parco nazionale, il Murchison Falls National Park.

L’infrastruttura attraverserebbe aree ecologicamente e socialmente delicate, toccherebbe uno dei bacini idrici più importanti del continente, che comprende le sorgenti del Nilo e il lago Vittoria, e sarebbe una delle più lunghe al mondo.

I rischi

Dopo anni di studio e trattative, la decisione finale di investimento è arrivata proprio mentre scoppiava la guerra in Ucraina. Il costo dell’opera è di 10 miliardi di dollari. Alla base c’è un conflitto sul modello di sviluppo: Eacop metterebbe l’Uganda sulla mappa energetica dell’Africa, la stessa di paesi come Repubblica del Congo e Angola, visitati dai rappresentanti del governo italiano pochi giorni fa, o il Mozambico, altro partner chiave dei paesi europei che vogliono smettere di fare affari con la Russia.

L’Uganda esce a pezzi dalla pandemia, le royalty dei suoi pozzi di petrolio nella natura varrebbero da sole circa il 3 per cento del Pil locale, ma mettono a rischio le risorse idriche e un altro settore economico chiave del paese, il turismo.

I costruttori europei e cinesi hanno fatto una valutazione d’impatto ambientale da quattromila pagine e giurano che un parco nazionale popolato da 2.700 elefanti, 1.900 giraffe e 100mila antilopi può serenamente convivere con decine di pozzi di petrolio e un oleodotto.

Il progetto è diventato un simbolo anche perché una delle ambientaliste più famose al mondo, Vanessa Nakate, è ugandese e ha mobilitato i Fridays for Future contro Eacop. Non è solo una battaglia dei giovani africani, buona parte della società civile locale si è opposta, così come pescatori del lago, operatori del turismo e organizzazioni che proteggono la fauna. Il governo non si è fatto problemi a chiudere 50 ong e arrestare gli oppositori, come Dickens Kamugisha, capo dell’Africa Institute for Energy Governance.

Diritti umani

Proprio il rispetto dei diritti umani rappresenta uno dei punti di rottura per la fattibilità del progetto. La legge francese obbliga anche le aziende che operano all’estero alla vigilanza attiva sui diritti umani e ambientali. Una rete di organizzazioni transalpine ha citato TotalEnergies in tribunale, con l’ipotesi che Eacop violi il diritto alla terra, la sicurezza e la libertà della società ugandese e le prospettive agricole di 100mila persone.

L’iniziativa legale entrerà nel vivo nel corso di quest’anno. Se Eacop diventerà il pilastro dell’ambientalismo mondiale, c’è una persona che dovrà affrontare un certo imbarazzo politico ed è Emmanuel Macron. Il presidente francese ha vinto il ballottaggio con Marine Le Pen conquistando i voti della sinistra ecologista con la promessa di una Francia leader ambientale globale e si è addirittura impegnato a farne il primo paese europeo a rinunciare ai combustibili fossili. Una prospettiva che stride con la costruzione da zero di un nuovo oleodotto da oltre 1.400 chilometri.

Dentro Eacop non ci sono soldi pubblici, ma Macron lo ha sostenuto in una lettera al presidente ugandese, parlandone come di una «ottima possibilità di cooperazione». L’avventura africana di TotalEnergies rischia di essere una macchia nella sua credibilità di leader ambientalista, già debole per un’altra sconfitta legale, quella del 2021, quando un tribunale ha dato ragione a quattro organizzazioni ambientaliste (tra cui Greenpeace) sul fatto che la politica climatica dello stato mette a rischio il futuro dei giovani francesi.

No, grazie

L’altra leva su cui conta chi vuole fermare Eacop è il rischio reputazionale, cioè il fatto che l’infrastruttura diventi in poco tempo, e prima che i lavori entrino nel vivo, un oggetto tossico da presentare ad azionisti e consumatori.

Il progetto avrà bisogno di un costante flusso di cassa, di credito e di copertura assicurativa. Sono già ventuno i soggetti finanziari che hanno dichiarato pubblicamente di non voler partecipare a Eacop, tra questi ci sono Allianz, Axa, Credit Suisse. Resta ancora da capire la posizione di Sace, la società controllata da Cassa depositi e prestiti per il credito al commercio estero.

Diverse aziende italiane saranno coinvolte nell’estrazione e nel trasporto del petrolio ugandese, ma il credito di Sace è in fase di valutazione. Alla Cop26 di Glasgow il governo italiano ha aderito (rocambolescamente e all’ultimo secondo utile) all’impegno di mettere uno stop al finanziamento pubblico a nuovi progetti internazionali di estrazione di combustibili fossili promosso dal Regno Unito. L’accordo scatta però dal 2023. Fridays for Future Italia ha chiesto di prendere posizione contro Eacop. 

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