Un filo solidissimo lega il Covid-19 ai cambiamenti climatici e alla grande sfida di evitare che essi raggiungano un punto tale da travolgerci.

Le malattie infettive dovute a microbi che hanno fatto un “salto di specie” sono sempre state una costante nella storia dell’umanità. Ogni contatto con un animale selvatico potenzialmente in grado di trasmetterci un agente infettivo pericoloso è sempre equivalso a premere il grilletto in una roulette russa: spesso va bene e non succede nulla, ma ogni tanto il colpo parte. E negli ultimi decenni, penetrando sempre più spesso in profondità negli ambienti naturali e moltiplicando le nostre occasioni di contatto con specie dalle quali avremmo dovuto restare divisi, non abbiamo fatto altro che premere il grilletto in troppi e a un ritmo serratissimo.

I coronavirus

Solo per quello che riguarda i coronavirus, salti di specie si verificherebbero di continuo, come ricordato da alcuni ricercatori sulla rivista Science nel 2021. A quanto ne sappiamo, infatti, esistono almeno 23 diverse specie di pipistrelli che possono ospitare nel loro corpo virus affini a quelli della Sars, quindi simili al nuovo coronavirus, anche se per fortuna non tutti così pericolosi (per ora).

Considerando i luoghi del mondo dove questi animali vivono, l’entità degli insediamenti umani in loro prossimità e valutando la presenza di anticorpi contro coronavirus in alcuni abitanti delle zone, è emerso che 400mila persone all’anno potrebbero essere mediamente contagiate da un coronavirus trasmesso dai pipistrelli.

Per fortuna, la maggior parte dei contagi non crea problemi di salute, o quantomeno non gravi, e non porta a trasmissioni da una persona all’altra. Però è un segnale di allarme: ora che abbiamo toccato con mano cosa può voler dire una pandemia di questo tipo, dobbiamo fare di tutto per evitare di essere vittima di altre, considerando che ovviamente non ci minacciano solo coronavirus.

Gli studi sul clima

Limitare la nostra interferenza con gli ambienti naturali, del resto, è anche parte di ciò che occorre fare per evitare che il riscaldamento globale raggiunga livelli tali da impedire alla nostra specie di sopravvivere su questo pianeta.

Che ci sia un problema con il clima lo sappiamo almeno dal 1979, quando si tenne la prima conferenza mondiale su questo argomento. Lo scopo dichiarato all’epoca era di «prevedere e prevenire potenziali cambiamenti climatici dovuti all’attività umana che potrebbero avere effetti avversi sul benessere della nostra specie».

Fu un incontro fondamentalmente scientifico, ma ebbe l’importantissimo ruolo di porre le basi per la nascita, pochi anni dopo, del Programma mondiale di ricerca sul clima (Wcrp) e del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc).

Rispetto alla dichiarazione di intenti del 1979, i condizionali e le formule dubitative non hanno più motivo di esistere: la comunità scientifica specializzata in studi sul clima è compatta nel sostenere che i cambiamenti che possiamo osservare sono dovuti all’attività umana e che possono esserci fatali (come si è già detto, nella ricerca quello che conta è quanto condiviso dalla comunità scientifica: se si levano voci isolate che propongono tesi diverse senza poterle dimostrare in modo tale da convincere i colleghi, queste non possono essere considerate valide).

Un’indicazione definitiva in tal senso è stata data dal rapporto dell’Ipcc reso noto proprio nel 2021. Non resta dunque che correre ai ripari e fare di tutto perché il riscaldamento della superficie terrestre non superi il livello di 1,5°C sopra le temperature medie che si registravano prima della Rivoluzione industriale.

Conoscenza e giustizia sociale

Adrienne Surprenant / AP

A questo scopo saranno necessari due elementi di base: conoscenze sempre più sofisticate e giustizia sociale. Le prime occorrono perché abbiamo bisogno di comprendere a fondo i complicati fenomeni climatici, così da immaginare le soluzioni tecnologiche più adatte a ripristinare un equilibrio. E poi sarà necessario valutare queste possibili soluzioni a sangue freddo, misurando il loro impatto e anche i problemi che inevitabilmente implicherà il mettere in pratica quelle prescelte.

Per far sì che il riscaldamento globale si mantenga entro limiti accettabili, sarà infatti indispensabile smettere di introdurre gas serra nell’atmosfera entro il 2050. Questo significa raggiungere la neutralità carbonica o le cosiddette “emissioni zero”: i gas serra che inevitabilmente continueremo a produrre con le nostre attività non potranno essere più di quelli rimossi dall’atmosfera stessa grazie a polmoni naturali come le foreste (sono allo studio tecnologie molto ambiziose che consentirebbero di sottrarre attivamente anidride carbonica dall’atmosfera, ma è difficile pensare che possano davvero fare la differenza in tempi utili).

Tutte le soluzioni disponibili per arrivare al fondamentale traguardo delle emissioni zero, però, comportano difficoltà dal punto di vista della fattibilità, della resa o dei materiali necessari a metterle in pratica. Ogni decisione, quindi, implica che soppesiamo vantaggi e svantaggi, consapevoli che in nessun caso potremo contare su tecnologie che non abbiano aspetti indesiderabili.

La giustizia sociale è l’altro elemento irrinunciabile, perché i cambiamenti climatici sono un problema globale che l’umanità deve affrontare cooperando unita. Non possiamo permetterci che una larga fascia della popolazione mondiale sia troppo povera, disperata, illetterata, malata o discriminata per poter partecipare allo sforzo collettivo.

E questo ci riporta al Covid-19, perché la pandemia in quanto emergenza globale può essere considerata “in piccolo” (e fa venire i brividi definirla così) una sorta di prova della sfida che ci aspetta. Nel fronteggiarla, dal punto di vista della conoscenza e della tecnologia sono stati raggiunti risultati straordinari: dai tempi fulminei nei quali è stato identificato il virus ai dieci mesi necessari per mettere a punto i vaccini.

È andata meno bene per quanto riguarda la capacità di valutare lucidamente rischi e benefici, come dimostra l’opposizione ai vaccini. Ma, soprattutto, siamo stati disastrosi nella giustizia sociale, visto che la gran parte della popolazione mondiale è stata relegata ai margini delle campagne di vaccinazione, che hanno invece potuto procedere subito con il vento in poppa nei luoghi più fortunati.

Questa disparità rischia di dare un enorme vantaggio al virus, prolungando l’emergenza e forse facendo svanire la possibilità di lasciare le maggiori preoccupazioni alle spalle. Non possiamo assolutamente rischiare di vanificare nello stesso modo gli sforzi contro i cambiamenti climatici, perché ne va della sopravvivenza di noi tutti sulla Terra. E non solo non possiamo trascurare i bisogni delle altre persone: non possiamo ignorare neppure quelli degli altri esseri viventi.

Difendere la biodiversità

Oggi il 96 per cento della massa dei mammiferi presenti sul pianeta è rappresentato dagli esseri umani e dai nostri animali da allevamento. Tutto il resto, dai pipistrelli alle tigri, dalle scimmie agli erbivori delle pianure africane, ai delfini e alle balene, costituisce solo il 4 per cento della massa dei mammiferi esistenti. E il 70 per cento degli uccelli che esistono è pollame per la nostra alimentazione. Stiamo distruggendo la biodiversità.

Ma la vita sulla Terra non si è solo adattata al clima, lo ha anche plasmato. Per controllare i cambiamenti climatici, quindi, ogni specie, animale o vegetale o fungo o ancora altro, deve avere il proprio luogo sicuro sul pianeta. In estrema sintesi, è ormai chiaro che la nostra salute individuale dipende da quella della Terra e di tutte le specie che la abitano.

L’emergenza del nuovo coronavirus ci ha fatto toccare con mano l’importanza di pensare alla salute in modo globale, secondo la strategia definita “salute unica”. Questo richiede l’unione di competenze molto diverse in campo scientifico e, ancora una volta, il contributo di tutti.

Affrontare “la grande sfida” è un compito immane: a pensarci, siamo le generazioni alle quali è affidata la responsabilità di salvare la specie umana (il pianeta, per quanto manomesso, troverebbe in ogni caso modo di adattarsi alla nostra estinzione e nuove forme di vita si evolverebbero così da prosperare nei nuovi ambienti). Però è anche un compito esaltante, e se verrà svolto correttamente comporterà molte nuove scoperte e storie da raccontare. 


Barbara Gallavotti è autrice del libro Confini invisibili. Quello che abbiamo imparato sui microbi e le sfide che ci aspettano, in libreria dal 1 febbraio per Mondadori

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