Nella sessione di domande e risposte dopo ogni incontro che tengo sui cambiamenti climatici, qualcuno a volte solleva una questione piuttosto  scomoda: data la natura di breve termine della politica elettorale, le democrazie sono fondamentalmente incapaci di affrontare la crisi climatica?

Non è una domanda stupida e non c’è una risposta facile. E non è nemmeno un’idea legata a una specifica frangia politica. Anche accademici ambientalisti con impeccabili credenziali liberali occasionalmente si chiedono se la classica democrazia liberale occidentale sia all’altezza del compito.

Approccio autoritario

In un libro del 2014, ad esempio, gli storici Naomi Oreskes e Eric Conway hanno immaginato un futuro distopico in cui il sistema politico autoritario cinese riesce a gestire meglio il tracollo climatico rispetto al nostro sistema occidentale fragile e consumista.

Qualche tempo fa, Cameron Abadi, un giornalista di Foreign Policy, ha preso di petto la questione in un saggio intitolato provocatoriamente E se la democrazia e la mitigazione del clima fossero incompatibili?. Il cuore della tesi di Abadi è che i compromessi resi necessari dalla democrazia – interessi in competizione, molteplici centri di potere, la dura realtà di mantenere gli elettori felici – tendono a eliminare il radicalismo che servirebbe per rispondere all’urgenza del problema climatico. In Germania, scrive, «anche se i verdi sono riusciti a entrare nel governo (ottenendo un record del 15 per cento dei voti alle urne), pochi punti sono entrati effettivamente nell’agenda di governo dei prossimi quattro anni». Similmente, anche se la piattaforma elettorale di Joe Biden ha sostenuto il settore elettrico zero-emissioni entro il 2035 e la piena neutralità del carbonio entro il 2050, «le politiche centrali intese a raggiungere quelle scadenze non hanno una possibilità reale di passare il Congresso». 

Un contributo più accademico sul tema è stato pubblicato sulla prestigiosa American Science Political Review lo scorso dicembre. Nel suo articolo, Ross Mittiga, un politologo dell’Università Cattolica del Cile, sostiene che in situazioni di emergenza, come la pandemia o il cambiamento climatico, potrebbe essere legittimo o persino necessario un approccio autoritario per garantire “sicurezza e protezione”. Mittiga non fa necessariamente il tifo per l’autoritarismo; spiega che «l’argomento qui presentato non va inteso come un sostegno all’autoritarismo, ma come un monito: se vogliamo evitare di legittimare politiche autoritarie, dobbiamo fare tutto il possibile per evitare che sorgano emergenze che possono essere risolte soltanto con mezzi simili».

I limiti dell’ecoautoritarismo

Tuttavia, l’idea secondo cui “l’ecoautoritarismo” possa essere l’unico modo per affrontare l’emergenza della nostra crisi climatica è sbagliata sia dal punto di vista pratico che teorico. Forse il problema più evidente per chi vuole sostenere questo approccio è il fatto che i regimi autoritari non hanno in realtà avuto più successo nel ridurre la produzione di carbonio rispetto alle democrazie.

L’eccezione non invidiabile è quando questo succede accidentalmente per un collasso economico: la Corea del Nord ha emissioni di carbonio molto basse, ma a causa della tremenda scarsità energetica. Al contrario, molti regimi autoritari sono stati che esportano petrolio con emissioni di carbonio interne estremamente elevate e vantano una storia di opposizione decisa agli accordi internazionali che cercano di limitare i cambiamenti climatici. Si pensi all’Arabia Saudita e alla Russia.

Anche se un leader autoritario decidesse di dare priorità all’arresto del cambiamento climatico, non è detto che ci riuscirebbe. La politica climatica è complicata e caotica e i più preoccupati spesso commettono gravi errori. Il partito dei Verdi in Germania, ad esempio, ha spinto il paese a chiudere le centrali nucleari, una politica fuorviante che aumenterà le emissioni di carbonio e contribuirà al riscaldamento del pianeta.

Allo stesso modo, le nuove informazioni e il progresso tecnologico spostano continuamente i confini di ciò che è possibile e di ciò che sappiamo. Non è chiaro dove sarebbe meglio investire le risorse della società per guidare il cambiamento tecnologico. Funzionerà l’idrogeno? La fusione nucleare? Sarà possibile avere aerei senza emissioni di carbonio? Nessuno ha certezze, e anche un autocrate del tutto illuminato potrebbe non fare le scelte giuste. Sappiamo solo che la situazione è complicata, contingente e in continua evoluzione.

Questo richiede sistemi di governo aperti e adattabili, in cui la conoscenza generata dagli esperti possa essere messa alla prova, ponderata e discussa con piena libertà di espressione e senza sanzioni per il disaccordo con l’opinione comune. 

In realtà, il problema non è tanto un eccesso di democrazia liberale, quanto una sua scarsità, dove ristretti interessi speciali come le compagnie di combustibili fossili sono in grado di esercitare un potere indebito. Ci sono poche ragioni per credere che interessi speciali, compresi quelli minacciati dagli sforzi di mitigazione del clima, avrebbero meno influenza in un regime autoritario che in uno aperto e democratico.

Naturalmente c’è poi una ragione più profonda e filosofica per opporsi all’ecoautoritarismo. Qualsiasi governo deve rivendicare la sua legittimità. In una democrazia, questa legittimità nasce dal consenso e dalla partecipazione dei governati. Da dove verrebbe tale legittimità in un regime di ecoautoritarismo?

Forse un regime del genere trarrebbe legittimità dalla pretesa di rappresentare attori non fisicamente presenti nel discorso democratico corrente, come le generazioni future, gli abitanti di altri paesi, gli animali, o persino la biosfera stessa. Ma chi dovrebbe rappresentare questi interessi nel governo, e come? Il potere tende alla corruzione, ed è ingenuo credere che una persona, o un partito, che si presume rappresenti interessi come le barriere coralline o i bambini non nati non diventi autoreferenziale.

Capacità di pensare al futuro

Dunque, se l’ecoautoritarismo non è la risposta, come dovremmo affrontare la crisi climatica? 

Per prima cosa i parlamenti democraticamente eletti devono continuare a fissare un’azione per il clima a lungo termine. Anche se tra gli attivisti del clima il sentimento è che tutti i progressi siano in stallo, negli ultimi anni ci sono state ragioni di speranza. Il Climate Change Act del Regno Unito, ad esempio, adotta una prospettiva espressamente a lungo termine, imponendo bilanci di carbonio successivi che tendono verso una data zero netta legalmente vincolante del 2050. Tanti altri parlamenti hanno già approvato atti simili o sono in procinto di approvarli.

Se i governi eletti non riescono a raggiungere gli obiettivi, i sistemi democratici ammettono la libertà di protestare e queste mobilitazioni extraparlamentari si possono tradurre in un cambiamento duraturo. Nel Regno Unito, dopo che il gruppo ambientalista radicale Extinction Rebellion è sceso in piazza con una campagna di mobilitazione di massa nel 2018, il tenore della conversazione politica è cambiato rapidamente e sono state approvate politiche climatiche più ambiziose. Queste includono il passaggio a una rete elettrica priva di emissioni di carbonio entro il 2035 e l’interruzione delle vendite di veicoli a combustibili fossili entro il 2030.

Ironia della sorte, quindi, l’esatto opposto dell’autoritarismo – libertà di parola, dibattito aperto, protesta e advocacy politica – ha il potenziale per realizzare politiche per affrontare l’emergenza climatica. Questo è il motivo per cui sono sempre state le democrazie liberali come Regno Unito, Francia, Germania e Svizzera, e non gli stati autocratici come la Cina o la Russia, a essere leader nel progresso climatico internazionale. Pur con tutti i loro difetti, le democrazie sanno pensare al futuro, mentre i leader autocratici sono capaci di pensare solo a loro stessi.

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