Sostituire la transizione ecologica con la sicurezza energetica vuol dire non capire che per la seconda serve necessariamente la prima. E “transizione”, per l’economista Per Espen Stoknes, direttore del Centro per la crescita verde della Norwegian Business School e membro del Club di Roma, significa cambiare le nostre metriche: calcolare la produttività delle risorse e non più del lavoro, rendicontare l’uso dei materiali nelle imprese. 

Gli strumenti contro il greenwashing ci sono. 

Economista, specialista della comunicazione sul cambiamento climatico, autore del libro L’economia di domani (Mit Press, in Italia tradotto da Franco Angeli)  Stoknes è arrivato a Roma, invitato al Festival della diplomazia in corso al Centro studi americani, nel giorno in cui a Bruxelles i leader europei si sono accapigliati sulla crisi energetica e in Italia veniva annunciata la cancellazione della dicitura Transizione ecologica per il ministero dell’Ambiente.

Lei ha sempre detto che chiedere di ridurre i consumi nel nome del clima non è il modo migliore per mobilitare le persone. Però è quello che i governi europei devono fare.

Il nostro cervello risponde molto male a minacce astratte e distanti, ma è evolutivamente predisposto a reagire a minacce vicine e personali. La crisi climatica non ha un nemico chiaro perché tutti stiamo contribuendo al riscaldamento  globale.  Per esempio, dire se continui a volare, il pianeta bollirà nel 2025, al massimo fa sentire a disagio, ma l’idea di non poter raggiungere tutte le destinazioni che vogliamo intacca la nostra identità. All’improvviso, però, c’è un nemico chiaro che si chiama Vladimir Putin che sta cercando di strappare agli europei il loro stile di vita, togliendo il gas. I governi Ue hanno una leva nuova per stimolare i cambiamenti dei comportamento, una fantastica opportunità.

Non sta funzionando: in Italia c’è già chi chiede di rimandare gli obiettivi della transizione ecologica e il nuovo governo sembra molto ben disposto a farlo. Cosa ne pensa?

Non è un buon argomento, soprattutto se un governo ha interesse per la sicurezza energetica: è chiaro che la dipendenza dal petrolio e dal gas è una minaccia alla sicurezza nazionale. Gli obiettivi europei non solo non andrebbero ritardati ma andrebbero anticipati. In Norvegia, il mio paese, c’è uno scenario simile: lo stato sta facendo molti soldi, semplicemente fornendo gas ai paesi europei e ora ne vogliono estrarre di più. Ma non si può lasciare che questa crisi venga sprecata: non c’è argomento migliore di questa crisi per velocizzare la transizione energetica e la produzione di energia da rinnovabili.

Cosa dovrebbe convincerci?

È una questione di sicurezza nazionale, di stabilità dei prezzi, di clima, ma anche dei posti di lavoro degli italiani e di welfare. Per ogni megawatt di energia prodotta dalle rinnovabili si hanno cinque volte i posti di lavoro di un megawatt di energia dagli idrocarburi. Nel lungo termine la fotografia è che è sempre più difficile trovare giacimenti di gas e petrolio a basso prezzo, i costi sono sempre di più e se ne trovano sempre di meno, ma la profittabilità dipende dai prezzi. Gli investitori negli Stati Uniti guardano alle prospettive di breve termine, ai prossimi due anni, vogliono denaro e lo vogliono adesso. Ma dal punto di vista della sicurezza energetica di un paese, sarà sempre progressivamente più difficile avere un barile di petrolio e sempre più semplice e economico ottenere un megawatt ora dall’energia rinnovabile.

I meccanismi del sistema finanziario stanno ostacolando la transizione ecologica?

Sì, in molti modi. Per esempio gli analisti finanziari vivono tutti nei paesi occidentali e sanno molto poco dei paesi emergenti, per esempio di come funziona l’economia del Ghana. Il sistema finanziario li punisce perché sono classificati come paesi ad alto rischio e questo si traduce in alto costo del denaro e quindi degli investimenti nella transizione, ora fondamentali.

Cosa si può fare?

Dobbiamo usare i diritti speciali di prelievo del Fondo monetario internazionale che sono una specie di moneta internazionale per investimenti verdi nei paesi a basso reddito, dove c’è bisogno di una politica monetaria espansiva che si contrapponga alla stretta messa in piedi dalle banche centrali per combattere l’inflazione. Investire nelle energie rinnovabili nei paesi emergenti contribuisce ad abbattere l’inflazione, perché significa diminuire la domanda di idrocarburi e contribuire all’abbassamento dei prezzi energetici che è la prima causa di inflazione.

E poi?

La cosa più importante è incentivare una maggiore produttività delle risorse, intese come materiali. Possiamo immaginare un quadrante della crescita, in cui lungo un asse c’è il Pil, in un’altra c’è il valore economico in base alla stessa quantità di risorse utilizzate, si può crescere o decrescere con la stessa impronta ecologica o diminuendola. La crescita grigia, quella attuale, è usare più materiali per produrre più valore. Dobbiamo prendere una nuova direzione: più valore aggiunto con meno materiali: la sola crescita verde genuina è quella in cui si aumenta la produttività delle risorse.

Quindi è finita l’èra della produttività del lavoro e del capitale?

La produttività viene calcolata come il valore creato in un’ora di lavoro, in euro o dollaro per ora, adesso abbiamo bisogno di pensare in termini di produttività delle risorse cioè in termini di euro o dollaro per tonnellata di materiale. Al momento attuale la produttività delle risorse è di due euro per chilogrammo al giorno, per centrare gli obiettivi climatici deve essere aumentata di dieci volte, con lo stesso materiale dobbiamo produrre valore per venti euro. Adesso la crescita della produttività delle risorse è del due-tre per cento l’anno per le economie avanzate, quindi probabilmente anche per l’Italia. Ed è troppo lenta. Se crescesse del sette per cento in dieci anni, vorrebbe dire raddoppiare la produttività. Questo è il tipo di velocità che ci serve, doppia rispetto all’attuale, in ogni caso superiore al cinque per cento. Alcuni paesi nordeuropei e la Gran Bretagna sono già in questa fase e anche la Cina si sta muovendo verso la crescita verde.

La Cina?

Soprendente, no? Tra il 2000 e il 2010 la Cina ha avuto una crescita “nera”, cioè ha utilizzato molta più energia per produrre lo stesso valore economico, più carbone per lo stesso dollaro, e è allo stesso tempo cresciuta moltissimo in termini di Pil, ma poi ha iniziato massicci investimenti in rinnovabili come nessun’altro prima. E ora lo stesso succederà all’India che sta copiando quello che ha fatto la Cina. Per questo ora è fondamentale per i paesi ricchi investire e abbattere il costo del capitale per gli investimenti in energie rinnovabili nei paesi emergenti.

I leader politici e i manager che incontra sono consapevoli che la vera misura della transizione è l’aumento della produttività delle risorse?

Sfortunatamente no, ed è per questo che abbiamo questo livello di greenwashing mentre si parla tanto di crescita verde. Non fanno altro che parlare di svolta verde, rinnovabili, Esg, ma non hanno una vera idea di cosa questo significhi in concreto.

E cosa significa in concreto?

Se l’Italia cresce in un anno del due per cento, che per l’Italia vorrebbe dire un buon anno, e allo stesso tempo riduce del quattro per cento il suo utilizzo delle risorse, allora hai una crescita della produttività delle risorse del sei per cento.

Sostiene, come altri, che si debba abbandonare il Pil?

No, dobbiamo usarlo correttamente. Il Pil significa solo quanto veloce il motore del capitalismo sta andando. Non dice nulla di altro, è molto limitato, ma è utile. Il Pil è una idea legata al rendicontare, un sistema nato a Venezia con il Trattato di partita doppia di Luca Pacioli cinquecento anni fa. Non dobbiamo archiviarlo perché è il modo in cui l’economia guarda il mondo. Ma oltre al rendiconto dei flussi di denaro, dobbiamo iniziare ad avere anche il rendiconto dei flussi di materiali e biomassa che usano le imprese.

Ma nella realtà ci sono imprese che lo fanno?

C’è un nuovo movimento che si chiama Integrated reporting, che è molto più profondo del sistema Esg, e la fondazione Ifrs che si occupa di fissare gli standard della rendicontazione finanziaria, ha annunciato a maggio di averlo adottato come strumento, per il momento volontario, ma raccomandato. Le aziende che lo utilizzano forniscono i dati su quanto materiale usano, potete vederlo direttamente dal sito del movimento. Il primo modo è calcolarlo in emissioni, la famosa impronta di carbonio, ma l’Integrated reporting aggiunge anche biomassa e metalli.

I metalli saranno risorsa preziosa anche nel passaggio all’elettrico.

Per questo il rendiconto integrato va oltre le emissioni di carbonio.

Qual è il ruolo dei governi in tutto questo?

Come abbiamo il sistema europeo di scambio sui diritti di emissione del carbonio che ha imposto un tetto preciso, allo stesso modo dobbiamo mettere un limite all’uso dei metalli e della biomassa. E una volta che il governo inizierà a regolamentarli, aumenterà l’innovazione sul fronte della produttività delle risorse.

Con quali conseguenze per il mondo del lavoro?

Tassare il consumo dei materiali, a entrate costanti, significa ridurre le tasse sul lavoro e sui redditi. E quindi è un modo per combattere la disoccupazione.

Lei dice che il capitalismo è un concetto mal concepito, in che senso?

Anche usare la parola capitalismo è un problema, perché la fa sembra un unico fenomeno. Ci sono così tanti e diversi tipi di capitalismo. Anche questa idea che capitalismi e governi siano due entità separate è un concetto sbagliato, pensare in questo modo è il modo per spararci sui piedi. Il capitalismo è sempre incorporato in regole, cornici legislative, processi amministrativi. Non esiste nulla come il libero mercato o il capitalismo libero. Il governo è come la pelle del frutto, e senza la pelle, il frutto marcisce, c’è una co-dipendenza tra i due. L’idea del libero mercato e del capitalismo che deve essere liberato dai governi ci ha portato sulla strada sbagliata. 

Quale strada?

Il capitalismo genera sempre disuguaglianza, perché chi investe di più guadagna di più, se hai denaro avrai più denaro, se hai più capitale avrai più capitale, questo è il funzionamento, è una dinamica di base. E se la si lascia libera, è come una macchina che va in sovraccarico, andrà più veloce e ancora più veloce, come è successo negli Stati Uniti e Europa negli ultimi venti trent’anni.

Questa dinamica predice più violenza, più conflitti, più problemi di salute mentale, more tensioni sociali, se prosegue col tempo può portare ai fascismi. Quello che abbiamo avuto negli anni Venti Trenta del secolo scorso e che forse vedremo di nuovo.

Speriamo di no.

Speriamo, certo, ma disuguaglianza produce frustrazione. Il governo deve contenere questa caratteristica assolutamente prevedibile del capitalismo che tende ad aumentare il livello di disuguaglianza. Non c’è niente di ideologico in questo, è puramente scientifico e empirico. Il capitalismo fa questo, ed è una buona cosa il capitalismo, ma dobbiamo evitare l’ideologia del libero mercato.

Lei sostiene che il Pil sia una misura più utile per i paesi emergenti che per le economie avanzate. Perché?

La crescita del Pil nei paesi emergenti è strettamente correlata con gli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, e cioè accesso all’acqua potabile, aumento di sicurezza alimentare, salute, educazione. Quando però si supera il Pil pro capite dei 15mila dollari per anno, la correlazione non è più così forte, l’aumento della ricchezza è meno legata all’aumento del benessere.

Quindi mantenere il Pil, ma cambiare altre metriche.

Questo è il mio messaggio non puoi avere una crescita sana senza cambiare la metrica. Bisogna usare la produttività delle risorse e l’inclusione sociale, per misurare a quale fascia di popolazione va la maggiorparte del reddito prodotto.

Va bene, ma alla fine pensa che siamo destinati al collasso del pianeta oppure no?

Uso l’ottimismo e il pessimismo come occhio destro e sinistro: da una parte vedo tutte le ragioni per essere ottimista, i progressi sulle rinnovabili, l’ondata di innovazioni. Dall’altra vedo cosa sta facendo Putin, gli investitori che cercano il guadagno a breve termine, l’impennata dei prezzi del petrolio. Credo che dobbiamo evitare la visione teologica per cui o si va in paradiso o all’inferno. Queste cose possono combinarsi in diversi scenari.

Quali?

Il primo è che continuiamo così un lento avvicinamento al collasso, di tanto in tanto ci saranno conflitti e morti, ma siamo otto miliardi, per cui sarà un processo lento. Il secondo è che ci impegniamo un po’ di più, parliamo di più di sostenibilità, ma senza cambiamento di sistema. L’ultimo è imboccare la strada di un cambiamento rapido.

Nessuna previsione, dunque?

Evito di farle perché le previsioni chiudono la mente, gli scenari invece aprono a nuove possibilità.

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