In questa puntata si parla di cosa vorrebbe dire superare la soglia critica di riscaldamento di 1,5 °C, di tre “messaggeri” o “viaggiatori” cosmici che possono insegnare molto e dell’acidificazione delle acque del Pacifico settentrionale
Nelle ultime settimane, oltre 60 climatologi hanno lanciato un avvertimento urgente: il “budget di carbonio” rimanente per restare al di sotto della soglia critica di riscaldamento di 1,5 °C – stabilita con l’Accordo di Parigi – si esaurirà in appena tre anni, se le emissioni continueranno al ritmo attuale. Il rapporto Indicators of Global Climate Change, pubblicato sulla rivista Earth System Science Data, stima che a inizio 2025 fossero rimaste solo 130 miliardi di tonnellate di Co₂, cifra che equivale a circa tre anni di emissioni globali a livelli attuali, stimati in oltre 42 miliardi di tonnellate l’anno.
Un punto di svolta, non una catastrofe immediata
Attualmente, il pianeta è più caldo di circa 1,2 °C rispetto all’epoca preindustriale, e la quasi totalità di questo aumento è causata dalle attività umane. Superare la soglia di 1,5 °C comporterebbe gravi rischi: inondazioni, ondate di calore intensificate, innalzamento del livello dei mari, e soprattutto effetti devastanti per le nazioni insulari e le comunità più vulnerabili.
Tuttavia, i climatologi sottolineano che, pur serio, il superamento di questa soglia non equivale a un’apocalisse automatica. Una volta ridotte le emissioni, esistono metodi per limitare o rallentare ulteriormente il riscaldamento globale. Michael Mann, climatologo di rilievo, ricorda che «ogni frazione di grado di riscaldamento che evitiamo ci rende più ricchi», evidenziando come prevenire sia più semplice, economico e utile che tentare di invertire un riscaldamento già in atto.
Anche in caso di azzeramento immediato delle emissioni, il riscaldamento globale continuerebbe per decenni a causa del calore già assorbito dagli oceani. Si prevede un ulteriore aumento fino a circa 0,5 °C solo per questo motivo; ma dopo, il clima si stabilizzerebbe gradualmente e nei millenni le temperature tornerebbero ai livelli preindustriali grazie ai pozzi di carbonio naturali come mari, foreste e suoli.
Per la professoressa Kirsten Zickfeld dell’Università Simon Fraser, 1,5 °C rappresenta un «indicatore di una condizione del sistema climatico che possiamo ancora gestire». Superare questa soglia, tuttavia, aumenterebbe drasticamente i rischi di raggiungere punti di non ritorno (tipping points), come il collasso della calotta glaciale della Groenlandia o la trasformazione dell’Amazzonia in savana.
Raffreddare il pianeta dopo un superamento richiede più di emissioni nette zero: servono emissioni nette negative, cioè rimozione attiva di Co₂ dall’atmosfera tramite tecnologie ancora in fase di sviluppo – come la cattura e stoccaggio del carbonio (Ccs) – e pozzi naturali potenziati. Gli esperti stimano che ridurre di solo 0,1 °C (ad esempio da 1,6 °C a 1,5 °C) richiederebbe rimuovere circa 220 miliardi di tonnellate metriche di Co₂.
Oggi le soluzioni naturali sequestrano circa 2 miliardi di tonnellate all’anno: ciò significa che servirebbe un aumento della capacità di rimozione del carbonio di oltre 100 volte, in tempi rapidissimi. Possibile, ma molto improbabile.
Messaggeri dalle stelle
Immaginate di osservare il cielo e scoprire che, tra milioni di asteroidi e comete “di casa nostra”, ne spunta uno che arriva da molto più lontano. Non da Marte, né da Giove, ma da un altro sistema stellare. Nel giro di pochi anni è successo tre volte: prima con l’enigmatico ‘Oumuamua (2017), poi con la cometa 2I/Borisov (2019) e, più recentemente, con 3I/Atlas, avvistata nel luglio 2025.
Tre viaggiatori cosmici che hanno varcato i confini del nostro sistema solare, portando con sé indizi preziosi sulle origini dei pianeti. E forse persino su come si formano i mondi lontani.
Asteroidi e comete non sono altro che gli avanzi della formazione dei pianeti: frammenti che non hanno mai trovato posto in un corpo maggiore. Studiare quelli “nostrani” ci racconta la storia del sistema solare. Studiare gli oggetti interstellari (Iso), invece, significa gettare uno sguardo nei cantieri cosmici di altre stelle.
Per gli astronomi, è come ricevere campioni gratuiti da sistemi planetari lontani, senza dover mandare sonde spaziali oltre la nostra stella. Non è un caso che la scoperta di ‘Oumuamua, nel 2017, sia stata definita una rivoluzione: per la prima volta avevamo la prova che pezzi di altri mondi possono arrivare fino a noi.
Un recente studio firmato da Shokhruz Kakharov (Harvard) e dal celebre astrofisico Abraham Loeb ha calcolato le traiettorie di questi tre messaggeri cosmici. L’obiettivo: scoprire da dove provengono e quanto sono antichi. Il risultato è sorprendente: 3I/Atlas è il più antico, con 4,6 miliardi di anni, nato nel disco spesso della Via Lattea, popolato da stelle antiche e povere di metalli. 2I/Borisov ha circa 1,7 miliardi di anni ed è nato nel disco sottile, la regione in cui si trova anche il nostro Sole. ‘Oumuamua è il più giovane, con un miliardo di anni, anch’esso proveniente dal disco sottile.
In altre parole: questi viaggiatori arrivano da angoli diversi della galassia e da epoche diverse. Alcuni hanno assistito ai primordi della Via Lattea, altri sono nati mentre sulla Terra già comparivano forme di vita complesse.
Gli astronomi hanno simulato migliaia di possibili traiettorie per ciascun oggetto, spingendo i calcoli indietro nel tempo di un miliardo di anni. Hanno usato un modello della galassia chiamato GalPot, che ricostruisce il suo potenziale gravitazionale. È come lanciare indietro nel tempo una biglia in un flipper cosmico e vedere da quale parte della macchina potrebbe essere arrivata.
Quello che gli astronomi possono indicare è la direzione apparente nel cielo, cioè le coordinate equatoriali (ascensione retta e declinazione) dell’asintoto di uscita. In ogni modo sono state fatte simulazioni per indicare la direzione celeste verso cui usciranno dal sistema solare, quindi non una “destinazione” stellare vera e propria, ma una rotta.
Tre oggetti in meno di dieci anni sono solo l’inizio. Con i nuovi strumenti in arrivo, come il Legacy Survey of Space and Time (Lsst) dell’Osservatorio Vera C. Rubin, gli astronomi si aspettano di scoprire decine di Iso ogni anno. E l’Agenzia Spaziale Europea, con la missione Comet Interceptor, punta addirittura a intercettarne uno nello spazio e studiarlo da vicino.
Se oggi mandare una sonda verso un’altra stella richiede progetti fantascientifici come Breakthrough Starshot (minuscole navicelle spinte da laser a frazioni della velocità della luce), i visitatori interstellari ci offrono un’alternativa: vengono loro da noi, portando frammenti di altri sistemi planetari direttamente sulla nostra porta di casa cosmica.
Ogni Iso è una sorta di lettera galattica scritta miliardi di anni fa, che viaggia nel vuoto fino a finire tra i pianeti del nostro sistema solare. Decifrarla significa capire non solo com’è nato il nostro mondo, ma anche come si formano e si evolvono i mondi intorno ad altre stelle. E se ‘Oumuamua, 2I/Borisov e 3I/Atlas sono stati i primi tre messaggeri, i prossimi decenni promettono un’intera biblioteca di racconti interstellari.
Le acque del Pacifico
Negli ultimi due secoli, la Co₂ emessa in atmosfera ha lentamente acidificato la superficie degli oceani – un cambiamento ben documentato. Ma ora, uno studio condotto dall’università delle Hawaii ha mostrato qualcosa di sorprendente: l’acidificazione sta accelerando anche – e soprattutto – al di sotto della superficie, nelle acque del Pacifico settentrionale vicino alle isole Hawaii.
Trentacinque anni di dati raccontano una storia preoccupante Gli oceanografi, guidati da Lucie Knor, hanno esaminato un record trentennale di misurazioni di carbonio nel profondo, scendendo fino a quasi 5 chilometri di profondità, grazie ai dati del programma Hawaii Ocean Time-Series dalla stazione Aloha, a circa 100 km a nord di Oʻahu. Sorprendentemente, tutti gli indicatori chimici legati all’acidificazione mostrano aumenti rapidi e uniformi su tutta la colonna d’acqua, non solo in superficie.
L’acidificazione è particolarmente intensa nelle acque più profonde, che sono già naturalmente più acide, rendendo questi ambienti ancora più fragili. Fenomeni come cambiamenti nella temperatura, la presenza di acque più dolci o grandi eventi climatici – come El Niño – possono amplificare gli effetti, con conseguenze potenzialmente devastanti per il plankton e gli organismi che vivono in profondità. A lungo termine, questo cambiamento chimico potrebbe anche ridurre la capacità dell’oceano di assorbire anidride carbonica, indebolendo un elemento cruciale del nostro sistema climatico.
Le acque osservate alla stazione Aloha provengono, in gran parte, da latitudini più settentrionali: i cambiamenti chimici in quelle regioni vengono trasportati giù, fino agli strati profondi delle acque hawaiane. Secondo il coautore Christopher Sabine, le modifiche regionali nella chimica dell’oceano e nella circolazione sono i principali motori dell’acidificazione accelerata sotto la superficie.
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