A dieci anni dalla firma dell’adozione del trattato sul clima, una delle sue architette ne traccia il bilancio. Che è «positivo ma frustrante. Oggi però la lotta climatica è ostaggio della guerra commerciale»
Laurence Tubiana è un’economista e diplomatica francese, considerata uno degli “architetti” dell’Accordo di Parigi sul clima del 2015. Direttrice della European Climate Foundation (Ecf), Laurence Tubiana è stata co-presidente della Convenzione cittadina sul clima in Francia e il suo nome era circolato per il ruolo di Primo ministro, dopo lo scioglimento del governo nel 2024. Oggi è l’inviata speciale per l’Europa alla Cop30, che si terrà a Belém, in Brasile, nel novembre 2025.
Sono passati 10 anni dall’Accordo di Parigi. Qual è il bilancio?
Un bilancio positivo, ma anche frustrante.
Positivo perché esiste un “prima” e un “dopo” Parigi. Da quella firma sono aumentati gli investimenti nelle energie rinnovabili, nei veicoli elettrici, nelle soluzioni a basse emissioni. Frustrante per la lentezza della sua attuazione, i blocchi imposti dagli Stati Uniti e la situazione geopolitica dopo l’invasione russa dell’Ucraina.
Cosa ricorda dell’atmosfera di allora?
Vivevamo un momento d’oro del multilateralismo: gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Onu, l’allentamento delle tensioni tra Cina e Stati Uniti e un’Europa molto impegnata sul fronte climatico.
Eppure nessuno voleva ospitare quella Cop21. I miei colleghi europei dicevano che i francesi avrebbero concesso qualsiasi cosa pur di arrivare a un accordo. Mi ricordo un G20 in Turchia disastroso per il clima e tutto lasciava presagire un fallimento. Invece siamo riusciti a vincere quella paura.
A Parigi c’è stato un incastro raro: una certa maturità delle soluzioni per decarbonizzare l’economia e una vera presa di coscienza del rischio, degli impatti e dei danni del cambiamento climatico. E poi, la consapevolezza che non ci si può mettere d’accordo solo tra pochi grandi paesi.
Oggi l’Accordo di Parigi è un punto di riferimento per varie giurisdizioni: ci sono circa 1.500 cause nel mondo che vi si richiamano, nonostante non sia giuridicamente vincolante.
Cosa resta oggi di quello spirito di Parigi?
Un senso di ansia.
Il contesto oggi è negativo, l’opposto del 2015. L’accordo commerciale inverosimile tra l’Ue e gli Stati Uniti, che prevede l’importazione di quantità record di gas, ne è la prova lampante. La lotta climatica è ostaggio dalla guerra commerciale.
Cosa le dà speranza mentre gli Stati Uniti si ritirano di nuovo dall’Accordo?
Non credo che ci sarà un’ondata di paesi pronti a uscire dall’Accordo di Parigi.
C’è invece una fortissima pressione americana sull’Europa. Pressioni contro le norme, che trovano sponda tra chi non vede l’ora di liberarsene. Non possiamo sacrificare tutto l’impianto normativo che ha contribuito a trasformare l’economia europea.
Durante il primo mandato di Trump, gli Stati Uniti erano impreparati e in parte ostacolati dalla giustizia. Questa volta hanno adottato la strategia dello “shock and awe”: colpire subito, con estrema durezza, a tutto campo. Noi europei non abbiamo nulla da guadagnare da questa deriva.
Nel frattempo, il rapporto degli investimenti internazionali è passato da 2 a 1 nei combustibili fossili a 2 a 1 a favore delle rinnovabili. E non solo in Europa: anche in Pakistan, in Etiopia o in Bangladesh.
Quanto vale la recente dichiarazione di Cina e Ue che riafferma la centralità dell’Accordo?
È importante perché, parlando spesso con i colleghi cinesi, per loro l’Accordo di Parigi ha un grande significato. Sono consapevoli di aver contribuito a quell’accordo, ma soprattutto lo considerano la migliore garanzia della continuità della politica industriale intrapresa 20 anni fa e la conferma che l’economia mondiale si muove nella stessa direzione.
Detto questo, la dichiarazione congiunta è modesta. Penso che la Cina non voglia rendere pubblici i propri obiettivi prima di settembre e si chieda fin dove spingere. Pechino potrebbe ridurre le proprie emissioni del 20-30 per cento entro il 2030 senza troppa difficoltà, ma il governo temporeggia per non vincolarsi e per tutelare il settore del carbone, il cui peso politico è rilevante.
L’Europa invece deve ancora ufficializzare gli impegni a orizzonte 2040.
Quale ruolo dovrebbe avere l’Europa?
Non dobbiamo avere paura degli Stati Uniti. Bisogna resistere e agire come se potessimo fare a meno di loro.
Con la Cina è un po’ più complicato: la nostra transizione ecologica è legata a importazioni provenienti da lì. Ma non dobbiamo permettere che i loro prodotti inondino il nostro mercato e rendano l’economia europea non competitiva. Serve una negoziazione bilaterale mirata che fissi regole chiare sugli investimenti.
Si parla sempre di un “backlash” ecologico. Cosa ne pensa?
I sondaggi e gli studi condotti a livello mondiale mostrano che questo “backlash” non proviene dalla società, ma dai governi. Non c’è un arretramento nell’opinione pubblica, anche se temi come il potere d’acquisto o l’immigrazione passano prima delle questioni climatiche.
La Cop30 è l’occasione per rimettere le cose in chiaro, ma bisogna dare alla società civile la possibilità di esprimersi, altrimenti si rischia di ignorarne la voce. E in quel vuoto, riecheggiano i messaggi di disinformazione provenienti da fonti russe o americane e slogan politici d’estrema destra, frutto di un preciso calcolo elettorale.
Perché la Cop30 dovrebbe essere diversa?
Nelle ultime edizioni, i governi dei paesi ospitanti esercitavano un forte controllo sulla società, lasciando poco spazio alla libertà d’espressione. Era già complicato a Glasgow, dove la separazione tra le Ong e il luogo ufficiale in cui si tenevano i negoziati, era netta.
Questa volta, invece, ci sarà un’assemblea mondiale dei cittadini per preparare la Cop. E il Brasile è un paese in cui la società civile ha ancora voce in capitolo.
Si aspetta risultati sulla giustizia climatica, cara alla presidenza brasiliana?
La questione della giustizia climatica è centrale. La gente lo dice chiaramente: non possiamo essere noi a pagare per i ricchi che prendono i loro jet privati senza versare un centesimo di tassa sul cherosene, mentre tutti paghiamo una tassa sulla benzina delle nostre auto.
Il costo dell’inazione è davvero più alto di quello dell’azione?
C’è un settore che finora è rimasto piuttosto silenzioso, ma che possiede tutti i dati: le assicurazioni. Stiamo spingendo affinché siano loro a dire quanto costa oggi il cambiamento climatico – centinaia di miliardi di dollari l’anno – e quanto costerà in futuro.
Per gli agricoltori, per esempio, le difficoltà ad assicurarsi contro le catastrofi naturali sono sempre più grandi. E se le assicurazioni non coprono più, saranno i contribuenti a doverlo fare.
Quali errori abbiamo commesso in questi dieci anni?
Sono accadute due cose in un certo senso contraddittorie. Da un lato, le condizioni climatiche peggiorano più rapidamente di quanto avessimo previsto a Parigi, dall’altro ci muoviamo troppo lentamente.
Abbiamo sbagliato nel non aver esercitato abbastanza leadership dopo Parigi.
L’Accordo di Parigi deve restare la spina dorsale dell’azione climatica?
L’Accordo di Parigi deve evolvere, ma non ce ne sarà un altro. Nessuno ha voglia di riaprire i negoziati. È ora di accogliere tutti coloro che attuano concretamente le misure: le imprese, le città, le Ong. Parliamo di chi agisce e non solo di chi siede ai tavoli dei negoziati.
Questa riforma della governance dell’Accordo di Parigi è necessaria.
Chi sono oggi i principali protagonisti della lotta contro il cambiamento climatico?
Le autorità locali, le città, la società civile – che svolge un po’ il ruolo di “controllore” – e le Ong. Anche i media, perché c’è ancora moltissima disinformazione sul tema. E le imprese legate alla transizione: a Parigi erano solo un piccolo gruppo, oggi sono una vera e propria economia.
Non riusciremo a risolvere tutto, ci saranno sempre paesi pronti a fare ostruzionismo, ma credo che sia il momento giusto per provarci.
© Riproduzione riservata



