Manaus, trenta gradi e 95 per cento di umidità, una città circondata dalla foresta, affacciata sulle acque nere e bianche del Rio Negro e del Rio delle Amazzoni: è qui che a fine maggio si è riunita la Corte interamericana dei diritti umani (Cidh), dopo una prima sessione ospitata dalle Barbados ad aprile, per ascoltare le testimonianze di 116 delegazioni in materia di crisi ambientale. Un appuntamento importantissimo, tre giorni di udienze nello storico Teatro Amazonas, che porteranno la Corte a pronunciarsi su quali siano i doveri degli Stati in termini di misure per la mitigazione e l’adattamento alla crisi climatica.

È tutto cominciato a gennaio 2023, quando due paesi, Colombia e Cile, hanno presentato alla Corte una richiesta di parere consultivo per chiarire «la portata degli obblighi degli Stati, nella loro dimensione individuale e collettiva, al fine di rispondere all’emergenza climatica nell’ambito del diritto internazionale dei diritti umani, prestando particolare attenzione agli impatti differenziati di questa emergenza sugli individui di diverse regioni e gruppi di popolazione, nonché sulla natura e sulla sopravvivenza umana sul nostro pianeta».

Un documento incisivo, che pone l’emergenza climatica come crisi dell’intera specie umana, ma sottolineandone la disparità degli effetti (oltre che delle responsabilità). Effetti che sono estremamente più aspri sulle comunità più vulnerabili «a causa della loro geografia, delle condizioni socioeconomiche e climatiche e delle infrastrutture». E chiama in causa la Convenzione americana dei diritti dell’uomo come strumento non solo per leggere e valutare l’emergenza, ma anche per cercare soluzioni «opportune e giuste».

Da allora la Corte si è mossa, e per cominciare ha ascoltato le esperienze e le dichiarazioni delle comunità colpite, dei difensori dei diritti umani e delle organizzazioni della società civile che li sostengono. Il 27 maggio, primo giorno della sessione brasiliana, è cominciato con la notizia importante del riconoscimento ufficiale della comunità messicana di El Bosque come sfollata climatica.

El Bosque è, o anzi sarebbe meglio dire era, un villaggio dello stato del Tabasco, affacciato sul golfo del Messico e costeggiato da un fiume. Si viveva di pesca, non c’era acqua corrente, si usava quella del pozzo. Una convivenza pacifica e in armonia con l’oceano e l’ambiente attorno.

E poi negli scorsi cinque anni il vento e le piogge sono diventati troppo potenti, il mare ha cominciato a ingrossarsi, negli ultimi due ha divorato centinaia di metri di costa, si è portato via le case e la scuola, ha inondato i pozzi di acqua salata, danneggiato il collegamento alla rete elettrica, reso impossibile la vita.

Ogni inverno qualche abitazione sparisce insieme a un pezzo di litorale. E dev’essere terribile non riconoscere più le linee, il perimetro e le sembianze del luogo in cui si è cresciuti. Non solo non c’è più la propria casa, ma nemmeno la terra dove si camminava magari da bambini. Perdere la propria geografia dev’essere simile a sbiadire, perdere di consistenza.

Non c’è niente che si possa fare, nessun adattamento possibile, l’unica soluzione qui è andarsene. E così sono ormai due anni che El Bosque chiede di essere ricollocata. Le donne della comunità sono andate fino alla capitale, hanno organizzato conferenze stampa e invitato le autorità per sopralluoghi.

I politici statali e federali hanno risposto, sono venuti a vedere, si sono prodigati in promesse. Non in fatti. Lo scorso novembre, con l’avvicinarsi dell’inverno e dei venti gelidi e forti che porta con sé, sono stati forniti rifugi provvisori invece di case. L’acqua potabile veniva consegnata ogni due settimane, se andava bene.

A inizio 2024, ci racconta Miriam Morsàn di Conexiones Climaticas, sono cominciati dei lavori per la costruzione di un nuovo villaggio, ma vanno a rilento e senza che ci sia stato un vero ascolto della comunità: «Non è previsto neanche un albero, e le famiglie non sono state consultate in merito alle loro necessità, prima di disegnare le nuove abitazioni».

Ricollocamento

Per il momento comunque nessun ricollocamento è arrivato, ed è inutile dire che le risorse per fare i bagagli e trasferirsi in città gli abitanti di El Bosque non le hanno. Per questo il riconoscimento dello status di sfollati climatici è importantissimo: ora i governi del Tabasco e del Messico dovranno prendersene cura. Nel documento presentato alla Corte interamericana dei diritti umani con l’aiuto di Greenpeace Mexico e dei collettivi Nuestro Futuro e Conexiones Climaticas (che da due anni a questa parte sostengono la comunità di El Bosque in questo difficile cammino) si lamenta l’assenza di qualsiasi piano nazionale di adattamento all’emergenza climatica o legge che regoli la gestione delle conseguenze: «Abbiamo perso le nostre case più rapidamente della capacità delle autorità statali di rispondere». E si chiede alla Corte di sancire l’obbligo per gli stati di sviluppare politiche di adattamento al clima che affrontino efficacemente gli spostamenti interni dovuti agli impatti climatici.

In tutto il mondo proliferano cause intentate contro gli stati e le aziende, portate avanti da comunità che troppo a lungo sono state vittima di pratiche colonialiste ed estrattiviste da parte delle compagnie internazionali. E, secondo Paolo Ramirez di Greenpeace Mexico, proprio questa tendenza a ricorrere alla giustizia internazionale è una testimonianza «di come le industrie dei combustibili fossili e dell’agroalimentare stiano impedendo il pieno esercizio di tutti i diritti umani e di come gli Stati non riescano a garantire questi diritti basilari ma fondamentali». Ma anche, si potrebbe aggiungere, di come le persone siano sempre più consapevoli e meno disposte a subire.

Anche il documento presentato da Greenpeace International e Union of Concerned Scientists fra il 22 e il 25 aprile alle Barbados sottolineava la responsabilità delle imprese commerciali e in particolare dei settori dei combustibili fossili e dell’agroindustria. E rilevava la necessità di stabilire da una parte l’obbligo per gli stati di regolamentare queste imprese. Dall’altra il dovere delle imprese stesse di rispettare i diritti umani nel contesto del cambiamento climatico e di porre rimedio ai danni alle violazioni provocate.

La consultazione della Corte interamericana dei diritti umani è cominciata poco dopo la storica sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che dava ragione alle KlimaSeniorinnen: un gruppo di più di 2.000 donne attorno ai 75 anni che aveva denunciato il proprio paese, la Svizzera, per inadempienza di fronte alle sfide poste dall’emergenza climatica.

La sentenza riconosce un legame diretto fra ambiente, diritto alla salute e responsabilità dirette delle autorità statali. Non è vincolante, ma costituisce un precedente legale per tutti i 46 Paesi membri, oltre che un esempio per altri tribunali internazionali come appunto quello interamericano.

Ciò che differenzia questo caso da quasi tutti i precedenti però è che non si tratta di un contenzioso: questa volta sono gli Stati stessi che hanno spontaneamente richiesto un parere consultivo alla Corte.

Governi progressisti

Non sono due Stati a caso. Il presidente del Cile è Gabriel Boric, classe 1986 e più giovane capo di stato al mondo, il cui governo socialista e ambientalista è scaturito dalle proteste di massa che hanno attraversato il paese fra il 2019 e il 2020. Mentre la Colombia di Gustavo Petro è il primo stato detentore di combustibili fossile ad aver bloccato i permessi per nuove trivellazioni di gas e petrolio, con l’intenzione di ridurne sempre più l’estrazione.

Anche i paesi che hanno ospitato le consultazioni sono significativi: il Brasile è da mesi in ginocchio per le alluvioni che hanno sommerso il 75 per cento dello Stato di Rio Grande do Sul colpendo circa 2 milioni di persone e creando 600mila sfollati, oltre a fare quasi 150 morti.

Le Barbados sono piccole isole che rischiano di essere sommerse dal mare, e la prima ministra Mia Mottley è stata una delle protagoniste di Cop 28, dove ha chiesto a gran voce una riforma delle istituzioni finanziarie globali, in particolare Fmi e Bm, e la cancellazione del debito dei paesi “in via di sviluppo”.

Nel corso di queste udienze la Corte interamericana ha ascoltato in tutto 265 organizzazioni da tutto il mondo e firmato un accordo con la Corte di giustizia dell’Amazonia per uno scambio accademico nel valutare le testimonianze.

Il risultato si attende per la fine del 2024, quindi verosimilmente nello stesso periodo in cui in Azerbaigian si terrà il carrozzone di Cop 29. Sarà il più importante documento di giurisprudenza sulla giustizia climatica e metterà in relazione diritti umani e cambiamenti climatici.

Servirà da guida e piano d’azione globale, ed è proprio quello di cui c’è bisogno anche per noi, di qua dall’Atlantico, all’indomani di elezioni europee i cui risultati ci ricordano che non ci si può occupare di clima senza occuparsi di diritti sociali.

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