Il negazionismo e la disinformazione portati da Trump all’Assemblea generale delle Nazioni Unite sono la scorta mediatica e politica per qualcosa di molto più concreto e fisico: da qui ai 2030 la produzione di combustibili fossili sarà più del doppio di quanto dovrebbe essere in una traiettoria per tenere l’aumento delle temperature dentro il grado e mezzo.

Sono i dati di uno dei rapporti scientifici più importanti dell’anno, purtroppo atterrato nella settimana del rumore e del caos di Trump. Si tratta del Production Gap report, uno studio congiunto di Climate Analytics, dello Stockholm Environment Institute e dell'International Institute for Sustainable Development (tre centri che dal punto di vista della ricerca energetica rappresentano l’élite).

Piani non rispettati

Questa è la quinta edizione del rapporto che nasce per misurare il disallineamento tra le politiche estrattive dei governi e il mandato della scienza per rispettare l’accordo di Parigi. Secondo l’edizione 2025 i piani di estrazione del carbone sono il 500 per cento più alti di come dovrebbero essere se volessimo stare dentro il grado e mezzo, quelli del petrolio sono del 31 per cento più alti, quelli del gas sono del 92 per cento più alti.

Dal report emerge (forse non sorprendentemente) che i paesi presentano dei piani formali di mitigazione delle emissioni che non rispettano. Rispetto agli attuali Ndc (gli impegni compilati secondo il mandato dell'accordo di Parigi) che coprono fino al 2030, la produzione reale di fonti fossili nella finestra di tempo da qui a fine decennio sarà del 35 per cento più alta degli impegni su carta dei governi. 

Il Production Gap report si concentra su venti paesi, che coprono l’82 per cento della produzione globale. Diciassette su venti programmano di aumentare le estrazioni per almeno un combustibile da qui al 2030. Ci sono diversi esempi di come le politiche pubbliche stanno incoraggiando questo danno climatico, dal supporto diretto alle infrastrutture fossili (come in Canada), a policy estremamente lasche sui permessi di estrazione (come in Brasile), a sussidi alle aziende (Cina, India, Messico), incentivi fiscali (Kazakistan, Russia), apertura di nuove aree per esplorazione (Usa, Norvegia). Insomma, ogni governo fa a modo suo ma alla fine quasi tutti fanno la stessa cosa: alzare la curva estrattiva proprio quando la curva andrebbe abbassata.

L’eccezione Colombia

C'è un’eccezione a questo stato di cose, un paese produttore di fonti di energia fossili che da tre anni ha scelto di stare dal lato della transizione e del phase-out: la Colombia di Gustavo Petro. Il paese ad aprile del 2026 organizzerà la prima conferenza internazionale sull’abbandono delle fonti fossili, un evento annunciato durante la Climate Week, che sarà sicuramente interessante seguire.

È molto significativo non solo che sia un paese socialista a seguire questa strada, ma anche un paese che ha il fossile ben incastonato nella sua storia e nella sua economia. In Colombia si estrae petrolio dagli anni Venti del Novecento, il carbone è arrivato negli anni Novanta, i governi di destra dei decenni successivi lo definirono la locomotiva della nostra crescita.

La Colombia nel 2022, quando Petro arrivò al potere con la sua piattaforma ecosocialista, era il sesto esportatore di carbone al mondo, il primo in America Latina, ed era il ventiquattresimo esportatore di petrolio, terzo nella regione. Le fossili in tutto erano al picco la metà dell'export colombiano, il carbone tutto destinato ai mercati internazionali, solo il Mozambico aveva una quota più alta di export sull’estrazione.

Da quando è arrivato Petro, il carbone in uscita è già passato da 100 milioni di tonnellate all’anno a 60 milioni, per un misto di dinamiche di mercato e scelte politiche. Non sono state più concesse nuove licenze di esplorazione, di questo passo il petrolio colombiano da estrarre finirà nel 2031. Exxon, la major con più interessi locali, sta già lentamente lasciando il paese: - 7 per cento di investimenti nel 2024. In generale gli investimenti nel settore fossile colombiano sono calati del 30 per cento.

E come sta andando? Nel 2025 l’economia crescerà del 2,4 per cento, come scrive l’Economist «numeri non spettacolari ma comunque più alti di quasi tutto il Sudamerica». La disoccupazione è all’8,8 per cento, la più bassa degli ultimi venticinque anni. Il mercato azionario è stato il quarto al mondo per crescita. Intanto, l’inflazione è crollata della metà.

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