A volte ce lo dimentichiamo, ma viviamo in un mondo fatto di alluminio. È un metallo così comune da diventare invisibile: lattine, costruzioni, infissi, praticamente ogni mezzo di trasporto, per non parlare di turbine eoliche e pannelli solari.

L’alluminio tiene insieme la vecchia e la nuova economia. Il futuro avrà sempre più bisogno di involucri e lamine di alluminio, negli ultimi vent’anni la domanda di questo metallo primario è quasi triplicata. La sua centralità è misurata dal fatto che le sanzioni sono andate caute con l’export di alluminio nei confronti della Russia quasi quanto quelle su petrolio e gas.

Mosca produce un decimo dell’alluminio primario globale e il 20 per cento di quello a basso contenuto di emissioni, grazie ai suoi fiumi e alle centrali idroelettriche, che lo rendono una delle poche alternative su scala a quello fatto con carbone cinese.

È una filiera pericolosa da toccare. Negli Stati Uniti si ricordano cosa è successo nel 2018, quando hanno colpito il colosso Rusal e l’oligarca Oleg Deripaska, per il suo coinvolgimento nelle interferenze russe nelle elezioni del 2016. Il prezzo è salito del 30 per cento in pochi giorni e gli Usa sono stati costretti a cercare un accordo, con l’uscita di Deripaska dal board e la cessione di quote, perché se si blocca il fiume di alluminio si blocca il mondo.

La crisi energetica

Negli ultimi mesi l’alluminio è stato colpito duramente dalla crisi energetica, come tante altre materie prime. Il problema, però, è che l'alluminio è uno dei metalli più energivori che esistano, ne usa così tanta che lo chiamano «elettricità solida».

È per questo motivo che la sua produzione, vent’anni fa, ha iniziato a spostarsi dai paesi Ocse alla Cina, dove l’energia era a buon mercato e sostenuta dallo stato: la quota cinese della produzione globale è passata dall’8 per cento a fine anni ‘90 a quasi il 60 per cento.

Ed è sempre per questo motivo, la fame di energia che c’è nell’alluminio, che i prezzi sono impazziti quando le fonti tradizionali come carbone e gas hanno iniziato ad andare fuori controllo. A ottobre del 2020 una tonnellata di alluminio costava 1.806 dollari, un anno dopo 2.934 dollari, e tutto questo prima che scoppiasse la guerra, con una domanda in crescita continua e la Cina che aveva ridotto le esportazioni.

All’inizio del conflitto il prezzo alla Borsa di Londra è schizzato a 3.552 dollari per tonnellata, quasi il doppio in meno di un anno e mezzo. «È un periodo che non si era mai visto, lavoro nel campo dell’alluminio da sessant’anni e non avevo mai assistito a una situazione del genere», dice Mario Conserva, segretario generale di Face, la federazione che rappresenta gli utilizzatori europei del metallo.

«Oggi l’Unione europea è in grado di produrre solo intorno al 15 per cento del metallo primario necessario per alimentare la domanda del suo sistema manifatturiero a valle. Il resto è costretta a importarlo, e tra i fornitori principali c’è la Russia». Nel 2019, ultimo anno con dati consolidati, di 8 milioni di tonnellate di alluminio primario importato dall’Europa, 1,3 venivano dalla Russia. «Ci sono tutte le caratteristiche di una tempesta perfetta», dice Conserva.

L’accordo di Parigi

Il problema è che una crisi dell’alluminio non è solo una pessima notizia per i tanti utilizzatori italiani (solo le aziende di produzione e prime trasformazioni sono 500, un tessuto per il 90 per cento fatto da pmi, 16mila dipendenti, un fatturato di 12 miliardi di euro, secondo in Europa solo a quello della Germania), ma anche per le stesse speranze di rimanere dentro i parametri dell’accordo di Parigi.

Senza alluminio (e in particolare senza alluminio sostenibile) non si decarbonizza. Innanzitutto perché le caratteristiche di questo metallo – leggerezza, lavorabilità, resistenza alla corrosione, durabilità – lo rendono centrale per tutti i tasselli della transizione energetica.

Se parliamo di batterie per le auto elettriche, citiamo il contenuto – nickel, litio, cobalto, manganese – ma il contenitore è quasi sempre alluminio, che è anche il materiale d’elezione per le lame delle turbine eoliche e per i telai dei pannelli solari.

Per la parte più tecnologica delle rinnovabili e dell’elettrificazione ci sono altri materiali, ma per un’infrastruttura leggera e resistente ci vuole l’alluminio. Un crollo della produzione o un’impennata strutturale dei prezzi rischiano di creare una strozzatura a un materiale chiave per la transizione, alla quale serviranno 360 milioni di tonnellate di alluminio da qui alla fine del decennio.

Paradosso Russia

Ma per capire davvero l’importanza dell'alluminio, e anche le conseguenze della guerra energetica e del conflitto militare, dobbiamo allargare il disegno. Non si rispetta l’accordo di Parigi se l’alluminio non sale a bordo.

La sua produzione primaria – per emissioni annue di gas serra – supera anche quelle di paesi delle dimensioni dell’Italia o della Germania. Il 2,5 per cento del riscaldamento globale è causato dall’enorme quantitativo di energia che serve per trasformare la bauxite – il minerale base – in allumina (l’ossido di alluminio) e poi in alluminio primario pronto all’uso industriale.

Quasi due terzi di questo materiale sono fatti in Cina, dove l’elettricità che manda avanti le fonderie è alimentata dal carbone e dove le emissioni sono devastanti. Secondo l’Agenzia internazionale per l’energia, per rimanere entro i 2°C di aumento della temperatura, l’alluminio deve più che dimezzarle, un salto che richiede investimenti fino a 1,5 trilioni di dollari nei prossimi trent’anni.

Oggi la principale alternativa per un alluminio sostenibile è usare l’energia delle centrali idroelettriche, dove il rapporto emissioni di gas serra è uno a cinque. In questo campo – quello dell’alluminio green – c’è un paese molto avanti ed è – paradosso – proprio la Russia.

«È una parte così importante della catena del valore dell’alluminio verde che non vedo una via d’uscita da questo stallo», ha detto Uday Patel, senior analyst della società di consulenza Wood Mackenzie. «Se questo sconvolgimento intorno alle risorse russe non si interrompe entro metà anno, c’è il potenziale per bloccare la decarbonizzazione in una serie enorme di prodotti». A fine anno era stato inaugurato l’impianto a bassa impronta di carbonio a Taishet, in Siberia, 428mila tonnellate destinate al mercato europeo.

Le lattine

Una buona storia per capire il tumulto dell’alluminio è pensare a una delle sue applicazioni più famose: le lattine. A settembre, Budweiser Brewing Group aveva stretto un accordo con Rusal per produrre cinque milioni di lattine ultra-low carbon, fatte con alluminio verde.

Era una parte del piano dell’azienda di raggiungere le zero emissioni entro il 2040. Sei mesi dopo è scoppiata la guerra e il progetto pilota non ha avuto seguito. Rusal non è ancora stata colpita da sanzioni, ma è diventata un partner problematico con cui fare affari e sul mercato ci sono pochi altri produttori di alluminio non alimentato da carbone.

Rusal è un gigante formato alla fine delle sanguinose «guerre dell’alluminio» tra aspiranti oligarchi degli anni ‘90 in Russia. È diventata la seconda azienda produttrice al mondo, la prima non cinese, era il veicolo russo per competere nel campo delle risorse con Rio Tinto o i giganti della Cina.

Il suo uomo forte, Oleg Deripaska, è rimasto tale anche dopo l’accordo con gli Stati Uniti. Ha mantenuto il controllo dell’azienda, ma il 10 marzo è stato colpito dalle sanzioni del Regno Unito insieme a Roman Abramovich. L’opzione sul piatto, per Rusal, è derussificare le operazioni internazionali, creando una nuova azienda senza investitori o legami con la madrepatria. Una prospettiva che interessa anche la controllata Eurallumina in Sardegna, dove si trasforma bauxite in allumina, 220 dipendenti e un futuro preoccupante.

Espandere il riciclo

«In filiere come quella dell'alluminio siamo ancora agli inizi del processo di decarbonizzazione, la guerra e il coinvolgimento di Rusal rappresenta sicuramente uno stop problematico», commenta Giovanni Brussato, esperto minerario e autore di Energia verde? Prepariamoci a scavare. «Il rischio è che per produrre quello che serve per decarbonizzare la filiera emetteremo una quantità di Co2 spaventosa».

L’Unione europea ha inserito la bauxite, il minerale da cui si trae l’alluminio, tra i suoi materiali critici. La soluzione per risolvere una situazione di scarsità cronica è l’espansione del riciclo, che taglierebbe drasticamente le emissioni e permetterebbe un uso più sostenibile della risorsa.

«Il problema è che per gli usi della transizione energetica, i più evoluti, la maggior parte delle leghe è complicata da riciclare», dice però Brussato, aggiungendo una nuova sfumatura a questo enigma globale: come trasformare la produzione di uno dei metalli più energivori in modo che non faccia deragliare la transizione energetica. Era già difficile prima della guerra, con l’invasione dell'Ucraina è diventato – se possibile – ancora più complesso.

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