C’era una volta il Veneto eccellenza del paesaggio, fisico e umano, il cui emblema si identificava con Palladio: nome oggi associato a pizzerie, profumerie, scuole guida, rosticcerie, parrucchieri, idraulici, take away, tutto tranne che ambiente. C’era una volta e rischia di esserci sempre meno.

Al suo posto emerge una regione implacabilmente condannata dai grandi numeri di processi degenerativi: dall’inquinamento alla cementificazione, dal dissesto idrogeologico alla congestione della mobilità.

Con puntuale connessione alla delinquenza organizzata: questa è l’area italiana con la più elevata presenza di ecomafie, segnala il Centro ricerche sulla criminalità della Cattolica di Milano. L’ennesima inchiesta sul traffico illecito di rifiuti, fresca di cronaca, lo conferma.

I numeri del degrado ambientale

Tuttora in primo piano nei notiziari è anche la drammatica vicenda Pfas, acidi usati nei processi industriali e poi disinvoltamente sversati per decenni nei suoli e nelle falde acquifere del Padovano, del Vicentino e del Veronese. Con un bilancio eloquente: 180mila chilometri quadrati inquinati, per un complesso di 50 comuni e 350mila abitanti coinvolti, un danno da 136 milioni. Una cloaca sommersa, scoperchiata dalle indagini partite nel 2013 nella valle dell’Agno, nel Vicentino.

Ma neanche chi abita nel resto del Veneto può sentirsi al sicuro. La mappa aggiornata al 2020 dell’Arpav, l’agenzia regionale per l’ambiente, censisce qualcosa come 2.891 siti potenzialmente contaminati, per la maggior parte concentrati nell’area centrale tra Padova, Venezia, Treviso e Vicenza. Potenzialmente significa che in ciascuna di quelle aree è presente almeno un valore superiore alle concentrazioni di soglia di contaminazione. E considerando che i comuni del Veneto sono 579, in media ciascuno ne ha cinque in casa.

E c’è pure la pattumiera più simbolica di tutte, Porto Marghera, sul cui venefico impatto esistono le cifre dell’apposita commissione parlamentare d’inchiesta: nel periodo compreso tra il 2004 e il 2010, quindi in soli sei anni, sono state recuperate 140mila tonnellate di rifiuti pericolosi, 600mila di rifiuti ordinari, 90mila di rifiuti solidi da bonifica, e 370mila di rifiuti liquidi.

Altra piaga è il Niagara di cemento che da decenni ormai devasta il Veneto, certificato dagli annuali rapporti Ispra, l’apposita agenzia del ministero dell’Ambiente: nell’ultimo, relativo al 2020, la regione risulta in testa a questa graduatoria dello scempio, subito dietro la Lombardia, con l’11,9 per cento di suolo consumato (contro il 12,1 dei lombardi), 682 ettari in più rispetto al 2019, dato di gran lunga superiore rispetto alla media nazionale, che è del 7,1. La densità di consumo è di 3,72 metri quadri per ettaro, superiore a quella della stessa Lombardia. Questo consumo del territorio è responsabile tra l’altro di un pesantissimo dissesto idrogeologico specie nelle aree più urbanizzate. Per non parlare della piaga dei capannoni industriali proliferati nell’ultimo scorcio del secolo scorso e poi abbandonati: uno su cinque oggi è dismesso, per un totale di 30 milioni di metri quadri.

Una risorsa identitaria

Stiamo parlando di come sta cambiando il profilo del cosiddetto Veneto “bianco”, inteso quale particolare configurazione sociale che ha caratterizzato l’Italia nordorientale per circa un secolo (la subcultura “bianca” dagli anni Ottanta dell’Ottocento agli anni Ottanta del Novecento, imperniata sulla centralità della Chiesa nella società locale), e la cui implosione ha fatto emergere forti elementi di conflitto che hanno costretto anche i più refrattari ad aggiornare le proprie mappe cognitive.

Infatti, come ha sottolineato a suo tempo un profondo conoscitore della storia patria quale Mario Isnenghi, negli anni Ottanta e Novanta «proprio il mite e idillico Veneto delle tradizioni che si rigenerano in un’ipotetica e atemporale quiete dei campi e nella operosa educazione popolare della vita di parrocchia mette invece materialmente e idealmente a soqquadro l’intero paese».

È davvero peculiare che un cambiamento socioeconomico e politico realizzatosi attraverso il richiamo all’importanza della “società locale” abbia tenuto così poco in considerazione la salvaguardia dei contesti territoriali in cui tale società ha potuto riprodursi nel tempo e prosperare. Si tratta di un elemento essenziale: il riferimento all’ambiente è parte integrante dell’identità di questa porzione di mondo.

È stato più volte notato come il paesaggio veneto figuri quale “personaggio” in gran parte della feconda tradizione letteraria caratteristica di questa terra. D’altronde, «niente di meno naturale e più costruito del paesaggio veneto», ha sostenuto sempre Isnenghi, in un brano compreso nel volume della Storia d’Italia Einaudi dedicato alla regione, in cui lo storico veneziano propone una lettura dell’evoluzione culturale del Veneto attraverso l’evocazione letteraria: «Il Veneto è anche un sogno letterario, un’accumulazione narrativa opera dei suoi scrittori. E di poche aree regionali italiane si potrebbe dire, quanto di questa, che possiedono una linea letteraria». Della quale Ippolito Nievo e Antonio Fogazzaro sono i capostipiti ideali di una possibile alternativa tra una letteratura “di parrocchia e di villa”, che rappresenta, nell’immaginario collettivo italiano, la corrente culturale eternamente egemone in Veneto; accanto alla quale ve n’è un’altra, più laica e “smagata”, “nordestina”, che produrrà nel Novecento alcuni capisaldi della letteratura italiana, quali i vicentini “non” di città Luigi Meneghello e Mario Rigoni Stern e il trevigiano (di Pieve di Soligo) Andrea Zanzotto.

Queste due linee letterarie in Veneto convivono, si scrutano e si interrogano (soprattutto la seconda nei confronti della prima); e se la storia, la sociologia e la scienza politica contemporanea hanno proposto ricostruzioni empiriche dettagliate e precise della citata subcultura “bianca” del Veneto, le pagine della letteratura migliore (da Libera nos a malo e I piccoli maestri di Luigi Meneghello a In questo progresso scorsoio di Andrea Zanzotto) possono aiutare a comprenderne i retaggi storici di lungo periodo e il loro riverberarsi nella cultura politica diffusa.

L’attivismo civico

Anche oggi la vivace letteratura prodotta dagli scrittori veneti riflette la sensibilità dei medesimi verso i contesti locali. La questione ambientale affiora nei romanzi di scrittori del Veneto orientale quali Gianfranco Bettin, Romolo Bugaro o Massimo Carlotto e nel teatro popolare di Marco Paolini e di Andrea Pennacchi, inventore della formidabile maschera “arci-veneta” del Pojana, resa celebre dalla trasmissione Propaganda Live in onda su La7.

Numerose ricerche sull’Italia nordorientale hanno evidenziato quale tratto saliente della cultura politica sedimentata nel lungo periodo in questa porzione di mondo il “localismo antistatalista”, ossia un modo di intendere la politica connotato dalla diffidenza nei confronti dell’intervento dello stato nazionale, bilanciato da un forte senso di appartenenza nei confronti della società locale e di fiducia verso tutti quegli attori che promettono di garantirne la salvaguardia.

È la permanenza di questa cultura politica, anche a fronte di trasformazioni socioeconomiche straordinarie, che ha garantito consenso a chi è riuscito a sintonizzarsi con essa, dalla Democrazia cristiana alla Lega di Luca Zaia.

Le mobilitazioni a tutela dell’ambiente, che si stanno diffondendo in questi anni in Veneto come in poche altre parti d’Italia, possono costituire una modalità molto interessante e innovativa in cui declinare il riferimento forte al territorio e alla società locale, tipico dell’Italia nordorientale, basata sull’attivismo civico e su un senso di comunità profondamente rinnovato.

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