Per l’opinione pubblica, la transizione ambientale è una priorità; per le future generazioni, un imperativo. Ma rende necessari cambiamenti nelle strategie delle imprese, sotto la pressione degli investitori, e politiche fiscali efficaci e coerenti. Nonostante la generale condivisione dell’obiettivo, le azioni dei governi e degli investitori sono troppo spesso inefficaci, o addirittura controproducenti, sia perché la logica sottostante è a volte viziata, sia perché non tengono conto degli incentivi che determinano il comportamento delle imprese, dei costi della transizione e di chi li debba sopportare.

Tra gli investitori è diffusa la pratica di orientare gli investimenti verso imprese con un elevato rating Esg (Environmental, Social and Governance). Trascurando gli abusi (gestori che non seguono i criteri di investimento dichiarati; rating Esg calcolati arbitrariamente; adozione solo di facciata dei criteri) l’adozione degli Esg ha l’obiettivo di penalizzare le società che producono emissioni nocive, scoraggiando gli investimenti nei loro titoli, e aumentando in tal modo il loro costo del capitale. Equivale quindi a una «tassa», imposta però dai soci.

Risultati scarsi 

L’esperienza mostra però come il risultato sia spesso contrario al desiderato. La prima ragione è che la transizione tende ad aumentare il valore delle attività inquinanti in quanto, a fronte di una domanda di energia fossile che rimarrà elevata per tanti anni ancora (basti pensare alle industrie energivore, ai sistemi di riscaldamento, alla generazione di elettricità e alla vita prolungata dei mezzi di trasporto), gli investimenti in ricerca e sviluppo di fonti fossili e nella loro lavorazione, sono crollati proprio perché in un prossimo futuro perderanno valore.

Quindi, a fronte di una forte domanda c’è un’offerta rigida, con due conseguenze: l’aumento del costo del capitale che gli investimenti Esg vogliono imporre alle imprese inquinanti incide poco sulle loro decisioni di investimento, in quanto sfruttano in prevalenza capitale già installato; inoltre, nella misura in cui le attività inquinanti hanno un elevato valore, le aziende quotate hanno tutto l’interesse a migliorare la propria valutazione Esg cedendole a investitori poco soggetti alle pressioni degli investitori (come il private equity) o conferendole in una società separata, e usando l’incasso per distribuire dividendi agli azionisti.
Ma, in tutto questo, la quantità di emissioni non cambia di una virgola. Bisogna anche sottolineare che ci sarà sempre un certo numero di investitori che valuta più il profitto del rating Esg: basta vedere come negli ultimi due anni l’indice dei titoli energetici abbia guadagnato l’88 per cento negli Usa e il 45 in Europa, contro una perdita del 33 del Global Clean Energy.

Lo stesso vale per le banche finanziatrici. Il regolamentatore europeo vorrebbe aumentare i coefficienti patrimoniali per gli istituti che finanziano progetti nell’energia fossile, ovvero aumentandone il costo. Ma mentre i finanziamenti delle attività «green» delle maggiori banche europee sono in media 1,7 volte le fossili, è solo lo 0,7 per quelle americane, che si potrebbero sostituire a quelle europee qualora la regolamentazione aumentasse il loro costo del capitale.
Un’utile analogia per comprendere il vizio di fondo sono le bombe a grappolo: bandite da tanti stati e proibite dai criteri Esg. Ma fino a quando i tre maggiori compratori di queste armi (Usa, Cina e Russia) continueranno a volerle, qualcuno le produrrà. Il problema dei criteri Esg è che trascura il ruolo della domanda di energia fossile.

La soluzione a mio avviso sarebbe quella di trasformare i criteri Esg da «tassa» sulle fossili a «sussidio» alle rinnovabili: invece di penalizzare chi inquina, premiarlo nella misura in cui aumenta gli investimenti verdi, Usando i cash flow generati dall’attività tradizionale o dalla cessione delle fossili. Premiare quindi chi inquina, ma riduce in modo credibile le emissioni.

Le auto elettriche

Esemplare la transizione alle auto elettriche. L’Europa ha posto un limite temporale alla produzione di quelle a motore endotermico, che è un utile segnale per l’industria. Ma non serve se i consumatori europei non comprano le auto elettriche perché costano troppo, e le case non riducono i prezzi perché non hanno raggiunto le economie di scala: il problema dell’uovo e la gallina. Inoltre manca una rete capillare di colonne di ricarica.
In California e in Cina le vendite di auto elettriche hanno raggiunto in pochi anni il 22 e il 39 per cento del totale dopo che è santa superata la soglia critica del 5 per cento. A questo punto case come Tesla e BYD hanno abbattuto i prezzi, anticipando la crescita del trend di vendite.
La soluzione europea potrebbe venire da un programma comunitario per sussidiare in tutti i paesi la differenza di prezzo tra elettrico ed endotermico fino al raggiungimento di una soglia critica di vendite, che permetterebbe alle aziende di prevedere la crescita della domanda, e quindi le economie di scala e la riduzione dei costi; oltre alla costruzione di una rete di colonne di ricarica standard.

Costi e occupazione

Un terzo problema è l’alternativa tra costi della transizione e occupazione. Produttori cinesi di auto elettriche come Byd hanno raggiunto le economie di scala superando Volkswagen nelle vendite di auto in Cina.
Alla stessa stregua i produttori cinesi di pannelli solari e di batterie hanno raggiunto un vantaggio competitivo difficilmente colmabile dai produttori europei grazie alle dimensioni raggiunte. Lo stesso potrebbe accadere presto per le pale eoliche. Quindi l’Europa è di fronte al dilemma tra facilitare la transizione ambientale con importazioni a basso costo dalla Cina, ma mettendo in crisi l’industria europea, oppure difendere e promuovere l’occupazione aumentando però il costo della transizione con dazi alle importazioni.
Stesso dilemma nel Carbon Border Adjustment, una tariffa all’importazione di materiali prodotti in modo inquinante come l’alluminio, penalizzando però un grande utilizzatore come l’industria automobilistica; o nei criteri ambientali imposti alle nuove costruzioni in Germania, rinviati però perché aumentavano troppo il costo delle abitazioni; o i divieti ambientali alla ripresa dell’attività estrattiva in Europa per tutti i minerali necessari alla produzione di batterie e pannelli, che così devono essere importati al costo aumentato dalle tariffe; o nella decisione inglese, tra grandi polemiche, di ridurre i vincoli ambientali per sostenere l’economia in crisi.

Soluzione possibile

Una soluzione è quella avanzata dall’amministrazione americana in cui lo stato sussidia con forti crediti di imposta gli investimenti nella transizione ambientale, non discriminando la nazionalità dell’investitore, purché fatti negli Usa, con addetti, componenti e materiali americani (ma accettando in questo modo la ripresa dell’attività mineraria). In pratica è un sussidio agli investimenti diretti esteri in America, al posto delle importazioni, per favorire l’occupazione, oltre che alla transizione.

Il vero problema della transizione ambientale è che nella percezione dell’opinione pubblica sia un’opzione senza costi, quando il realtà sono ingenti. Per le imprese si tratta infatti di accollarsi la perdita totale di valore delle attività legate alle fonti fossili, e allo stesso tempo di finanziare i nuovi investimenti per la transizione ambientale: dati gli ingenti capitali necessari, i tempi e i rischi, nessuna impresa potrà mai farlo, e nessuno investitore privato vorrà mai finanziarli. Per questo serve un massiccio intervento pubblico, finanziato col debito: le future generazioni dovranno sopportare il peso del maggior debito ereditato, ma in cambio di un ambiente sostenibile.

In Europa, un approccio come quello americano sarebbe possibile solo attraverso la mutualizzazione del debito che finanzi un programma comunitario uguale per tutti. Invece, oggi ogni nazione va per la propria strada. Il rischio, o forse il destino, è che la presunta leadership europea nella transizione ambientale finisca schiacciata ancora una volta da Cina e Stati Uniti.

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