Cosa rende un libro indimenticabile, cosa fa sì che quel libro continui a essere letto, o comunque a esistere, volteggiando sopra la testa dei lettori addirittura quando è fuori catalogo da tempo? Quando persino è irrecuperabile, introvabile da anni? I Diari di Antonio Delfini sono un’opera prodigiosa perché fino ad ora, ora che Einaudi ha deciso di ripubblicarla, era pressoché scomparsa, eppure non era mai svanita, né nonostante le brezze e le bufere del secolo è mai volata troppo lontano dalla memoria dei lettori.

Mai i Diari sono scomparsi, da quando il loro autore, con il soprabito sbottonato, incurante del freddo se non per le mani in tasca, passeggiava sotto la neve per le contrade di Modena medievale; mai sono scomparsi da quando lui dichiarava l’amore a tutte le ragazze che gli concedevano un ballo, mentre intanto però ricordava «l’odore di un abito di tela bianca nel mese di giugno» che indossava la sua prima fidanzata; mai sono scomparsi da quelle lontane giornate in cui Delfini camminava per Bologna con «il cuore stretto come una nocciola». Mai i suoi Diari sono scomparsi, pure quando erano introvabili, pure quando erano fuori catalogo.

Un dilettante

Nel gennaio del 1982 Einaudi li aveva pubblicati con la curatela della figlia, Giovanna Delfini, e di Natalia Ginzburg e con la prefazione di Cesare Garboli. Adesso, quarant’anni dopo, i Diari tornano finalmente in libreria. Sempre grazie a Einaudi. E stavolta la curatela è di Irene Babboni, traduttrice di Perec e Modiano, nonché allieva dello stesso Garboli e ideatrice della collana Frontiere. La prefazione è firmata da Marco Belpoliti, che nel 1994 curò con Andrea Palazzi, per Marcos y Marcos, il sesto numero di Riga, dedicato proprio ad Antonio Delfini.

Antonio Delfini era un «dilettante di letteratura, dissipatore di patrimoni», nato in una famiglia modenese talmente ricca da ignorare la provenienza e l’entità del patrimonio. Forse fu partorito nel 1907 o forse nel 1908, c’è un po’ di incertezza sul giorno in cui venne al mondo.

Era un uomo in cui, il giovane Garboli colse presto l’indole segreta, molto commovente e balorda, di chi vorrebbe il cuore degli altri senza chiederlo né tanto meno dare in cambio il suo. «Pochi scrittori», ammette Delfini, «hanno odiato gli altri scrittori come li ho odiati io». E gli altri scrittori cosa pensavano di lui? «Un dilettante», disse con un sorriso affettuoso Moravia; «un dilettante», disse Pannunzio, con un sorriso stavolta ironico.

Fra le lenzuola

I Diari sono forse il frutto più formidabile, in tutta la loro pregevole inconcludenza, della penna di questo dilettante. Perché sono struggenti e intimi, onesti e brutali. Perché danno spesso l’impressione di essere stati scritti da un adolescente, un adolescente perennemente custodito nell’ambra, più spesso scoraggiato che no, ma di un avvilimento e uno sconforto premiati dal bacio della letteratura.

«Per molto tempo, sono andato a letto presto la sera» scrive Marcel Proust nella prima frase de Alla ricerca del tempo perduto: Delfini avrebbe potuto replicare con grande nonchalance che per molto tempo, almeno per buona parte degli anni in cui tenne questi diari, si è svegliato parecchio tardi la mattina. Spesso e volentieri anche dopo le undici.

Preferiva restare tra le lenzuola, magari ripensando alle letture fatte la sera precedente, invece che prendersi quelle collere che lo sorprendevano appena usciva dalla sua camera.

E cosa sognava Delfini in tutto quel tempo che trascorreva a letto? Il 24 luglio 1928 sognava «una ragazza che corteggiai anni fa, dal viso rifatto, è venuta in casa mia con tutti i suoi famigliari, per un contratto di matrimonio». Gliela volevano dare in moglie, ma lui non riusciva a staccare lo sguardo da quel suo naso spezzato in quattro pezzi e dagli occhi di metallo. La notte successiva sogna un orco vestito da principe che si porta via la sua ragazza.

Timidezza e insofferenza

Dopo aver composto i suoi primi racconti, Delfini lascia Modena per Firenze e poi per Viareggio, ha una sua piccina notorietà di stima e non di vendite, e i suoi amici sanno che non è semplice né raccomandabile provare a collaborare con lui – sempre secondo Garboli sarebbe stato più consigliabile «far trottare una zebra ad Agnano».

E già nelle pagine dei suoi diari Antonio Delfini mostra un temperamento che fa vivere chiunque gli capiti a tiro nel continuo timore di una tempesta: qualunque giorno poteva accadere che un motivo qualsiasi – una minestra sgradita o un’altra sciocchezza di altro genere – scatenasse la sua ira.

Il giovane Delfini è primatista forse mondiale in fatto di timidezza e di insofferenza. Anche quando se ne stava al sole sul lungomare o in spiaggia a lanciare occhiate a qualche bellissima ragazza sotto l’ombrellone, riesce facile immaginarselo a corrugare la fronte dolorosamente.

È un tipo strano e imprevedibile. Quando, per via di certi occhi rossi e certi denti guasti, pensò di aver contratto la sifilide, prese appuntamento da «un dottore di malati di petto, il primo che trovai scritto sul giornale». Se avesse avuto la sifilide, confida al suo diario, si sarebbe infatti «vergognato di andare da uno il quale realmente curasse quella malattia». Da parte sua Delfini si definiva un uomo di «una mitezza eccessiva nata del desiderio di non soffrire mai o il meno possibile, nel tempo convertita in pigra contemplazione e una sorda velleitaria rivalsa che non è mai sfociata in una conclusiva spiccata vendetta».

Grafologia

Sarebbe stato perlomeno curioso se uno dei più autorevoli grafologi in attività agli inizi del Novecento, il tedesco Ludwig Klages, che realizzò perizie di casi assai illustri, tra cui Richard Wagner, Ludwig van Beethoven e Heinrich Schliemann, si fosse dedicato a studiare i tratti della scrittura di Antonio Delfini.

Il principio dell’indagine grafologica prevede che il perito, oltre all’età e al sesso, non abbia da sapere nient’altro dello scrivente. Cos’avrebbe allora potuto intuire dalla grafia di Antonio Delfini, l’esimio grafologo? Cosa avrebbe compreso da quei foglietti sparsi su cui lo scrittore modenese scriveva nel 1928 o dalle pagine di quel quaderno di scuola, inaugurato nell’ottobre del 1936, dalla copertina morbida con la riproduzione in bianco e nero di una veduta della città di Napoli?

Quando uscì la seconda edizione del libro che Delfini continuò a scrivere per una vita, Ricordo della Basca, Garboli domandò a un conoscente che collaborava con le pagine culturali di un quotidiano di recensirlo. Quello gli rispose così: «Bello, bellissimo, la letteratura è quella lì, è così che si scrive, ma non posso: non so che dire».

Per lui, che scrittore lo fu suo malgrado, essere uno scrittore significava «abbracciare, senza alcun interesse premeditato, tutte le possibilità della vita, oltre alla possibilità di inventare altra possibilità». Con ogni probabilità, e senza qui volersi sostituire a lui, Ludwig Klages in ognuno di quei fogli avrebbe letto ciò che leggiamo ora anche noi.

Insomma, anche lui ci avrebbe trovato la calligrafia insofferente, annoiata e irrequieta di un adolescente nell’ambra, una calligrafia destinata a non sbiadire mai, e non «un soliloquio scomposto e compassionevole per la sua nullità» come lo pensava il suo stesso autore, ma un cahier de vie sincero e commovente. È maestro vero, Delfini, con una punta di bravura fino eccessiva, di timidezze e di pigrizie, di inconcludenze e di malinconie, lo è stato dagli anni Venti agli anni Quaranta, le decadi dei Diari e del suo apprendistato, e lo sarà sempre, pure se i suoi libri sono abitualmente sull’orlo triste del fuori catalogo.

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