L’Europa per i trasporti locali funziona molto bene da anni con gare periodiche per l’affidamento del servizio. Da noi si rischia una situazione peggiore di quella dei balneari.

Una recente informativa dell’assessore lombardo alla Mobilità sancisce che per i prossimi dieci anni (2023-2033) non vi sarà alcuna gara per l’affidamento del servizio ferroviario regionale. È probabile che questa decisione sarà imitata quasi ovunque.

La materia è regolata dalla legge del governo Draghi sul mercato e la concorrenza (n.118 del 5 agosto 2022). Questa legge era ancora denominata al 2021: pur risalendo al 2017 l’obbligo di promulgarla annualmente, è stata più volte rimandata, a riprova della conflittualità che la connotava.

Per i trasporti pubblici si presenta innovatrice, ponendo limiti sia agli affidamenti “in house”, sia alla partecipazione degli enti locali nella aggiudicazione delle gare, se concorrono con imprese proprie (cap.3, par.8 e 9).

Il dettaglio

Chi avesse seguito l’andamento delle proteste degli enti locali e dei sindacati, e le resistenze politiche alla messa in gara dei servizi (definita da molti “liberalizzazione”) si stupirebbe del silenzio con cui quella legge è stata approvata.

La spiegazione risiede in un dettaglio luciferino: la legge, per i contratti in essere, rimanda alla normativa europea, che prevede fino al dicembre 2023 la possibilità (non certo un obbligo) di una loro proroga decennale (cfr. regolamento CE n. 1370/2017 , articolo 1, paragrafo 2).

Ora, è difficile trovare motivazioni politiche difendibili a questa ostilità alle gare, perché la messa in gara non ha a che vedere con la liberalizzazione dei servizi. Anzi, ne perpetua il monopolio, solo rendendone periodico l’affidamento.

E considerando gli aspetti sociali del servizio ci troviamo di fronte a una contraddizione: tali aspetti risiedono nelle caratteristiche delle tariffe, della geometria e capillarità delle reti e delle fermate, e nella frequenza dei servizi offerti al pubblico.

Ma queste caratteristiche possono essere definite nel bando di gara e quindi non sono soggette a nessun arbitrio dell’impresa vincitrice.

Per un altro aspetto sociale, il trattamento del personale, è prevista una “clausola sociale” con l’obbligo per il subentrante di assumere tutto il personale dell’incumbent (ci si chiede peraltro perché questo settore debba essere regolato da norme diverse da quelle ordinarie: ci sono lavoratori più uguali di altri?). Non è così per i dirigenti e gli amministratori, spesso di nomina politica, e questo può spiegare le resistenze all’innovazione di queste categorie, spesso nei fatti allineate ai sindacati più combattivi.

Cosa viene messo in gara, in una competizione di questa natura (nota come “per il mercato”  per distinguerla da una liberalizzazione vera, cioè “nel mercato”)? Si chiede ai concorrenti se possono fornire gli stessi servizi con minori sussidi – che ammontano in media a più della metà dei costi di produzione – riducendo così l’onere per le casse pubbliche, e/o di aumentare la quantità di servizi offerti e migliorare la qualità a parità di risorse. L’ente locale che bandisce la gara è libero di determinare punteggi basati su un mix di questi obiettivi, a sua esclusiva discrezione.

Ma l’ente locale che bandisce la gara, se teme cambiamenti di incerta controllabilità, potrebbe limitarsi a sperimentare, mettendo in gara solo parte dei servizi.

E potrebbe anche chiedere nel bando una riduzione delle tariffe: essendo queste generalmente dell’ordine del 30 per cento dei costi di produzione, una riduzione di tali costi anche solo del 10 per cento potrebbe rendere gratuito il servizio per un terzo degli utenti a minor reddito. Cadrebbe così ogni dubbio sul fatto che fare le gare significa aumentare, non diminuire, la socialità del servizio offerto.

Le radici dell’ostilità

Come spiegare allora questa ostilità alle gare?

La spiegazione più ovvia è un fenomeno di “cattura del regolatore”, cioè del prevalere di interessi aziendali su quelli della collettività. Tale cattura è basata sul “voto di scambio” con gli addetti. Per quanto protetti contrattualmente potrebbero trovarsi una proprietà meno condizionabile politicamente. Un’altra resistenza, oltre quella dei già citati dirigenti di nomina politica, potrebbe venire dai fornitori: diverso è contrattare con soggetti pubblici che politicamente non possono fallire, che con soggetti privati che abbiano come obiettivo il profitto.

Infine, va ricordato che prorogare un regime di monopolio ha anche effetti di lungo periodo: il monopolista ha spazio per rafforzare le sue posizioni, ergendo difese sia sul piano politico che informativo. rinforzando il messaggio che mettere in gara i servizi costituirebbe un danno per la collettività.

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