La prima osservazione da fare è che, se si considera l’inflazione, in termini reali non si registrano aumenti straordinari dei prezzi dei carburanti nell’ultimo ventennio. Le tasse però pesano per oltre il 50 sul costo a carico dei consumatori. Dopo le sigarette, benzina e gasolio sono i beni su cui il fisco incide di più.

Si tratta di una tassa regressiva, cioè colpisce maggiormente i redditi più bassi. Si ricorda che abbiamo una densità automobilistica tra le più alte d’Europa, che prevalgono le piccole cilindrate, e che il parco è piuttosto vecchio: siamo cioè di fronte ad un consumo relativamente “popolare”. Ed è un consumo a domanda rigida, cioè che cambia poco al variare dei prezzi, il che significa che esistono scarse alternative comparabili per spostarsi. Significa anche che dal punto di vista della collettività è una tassa molto efficiente: a parità di ricavi per l’erario, può essere tenuta più bassa di altre (o, a parità di tassa, produce maggiori ricavi). Tecnicamente si dice che minimizza la perdita di “surplus sociale”, cioè la perdita di benessere che ogni tassa genera.

Benefici ambientali

Vi sono altri aspetti da considerare: per l’ambiente è una tassa che fa pagare agli inquinatori gran parte dei costi sociali che generano, cioè che «internalizza» tali costi, il che ha anche un contenuto di equità (chi produce un danno lo paga), e infine ovviamente riduce i consumi di combustibili fossili. Li riduce però troppo poco rispetto ad altri tipi di tasse ambientali: infatti ha il grave difetto che tassa un bene a domanda rigida, cioè distoglie relativamente pochi utenti dal servirsi di mezzi di trasporto inquinanti.

Le tasse sui carburanti giovano alla riduzione della congestione stradale, ma lo fanno in modo inefficiente: la congestione si manifesta in particolari luoghi (aree urbane e metropolitane, alcune tratte stradali) ed in particolari tempi (ore e giorni di punta).La tassa sui carburanti colpisce invece nello stesso modo viaggi in tempi e luoghi diversissimi. Sarebbe molto meglio, a parità di ricavi, servirsi di strumenti “mirati”, che colpiscano direttamente il fenomeno, come le tariffe di congestione già presenti con successo in molte città del mondo e in Italia a Milano. La tecnologia ha reso queste politiche molto più semplici da realizzare, con dispositivi “in remoto” che non richiedono di fermare i veicoli (sistemi “free flow” basati su transponder).

In prospettiva poi questa tassa ha il problema che se le politiche europee di conversione all’elettrico del parco veicolare avranno, come si spera, successo, nel tempo i 40 miliardi netti annui che complessivamente il settore stradale genera all’erario sono destinati a scendere.

Infine, il prezzo finale dei combustibili fossili impatta molto sull’inflazione, colpendo in particolar modo i beni di largo consumo, a causa dell’incidenza elevata che hanno i costi di trasporto su merci relativamente povere e pesanti come i beni alimentari, in specie i prodotti agricoli, data l’assoluta prevalenza del trasporto merci via strada.

Carbon tax

Che fare allora, vista la straordinaria complessità delle implicazioni sociali ed economiche di questa tassa? L’opinione tecnica dominante è quella di omogeneizzare ed estendere la tassazione delle emissioni “clima-alteranti”, in particolare del principale responsabile, il CO2, attraverso una “carbon tax” più universale possibile, al fine di ottenere contemporaneamente obiettivi di minimizzazione dell’effetto serra e di equità orizzontale (qualunque soggetto che genera danni alla collettività pagherà in proporzione al danno arrecato).

Per altri obiettivi, sia di carattere distributivo che di trasporto che di salute (la CO2 è innocua, al contrario di altre emissioni) è molto più efficiente servirsi di strumenti, anche fiscali, ma “mirati” a ciascun obiettivo specifico.Rimane aperta la questione sul livello ottimale della “carbon tax”. Su questo tema è in corso un serrato dibattito, che vede le posizioni europee divergere da quelle del resto del mondo, tema su cui torneremo.

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