Stando alle bozze in circolazione, il decreto Lavoro, che verrà simbolicamente approvato il 1° maggio in Consiglio dei ministri, contiene alcune norme che chiariscono, se ce ne fosse ancora bisogno, la visione del lavoro propria di questo governo: favorevole a garantire ai datori di lavoro la maggiore flessibilità/discrezionalità possibile nell’impiego dei lavoratori, soprattutto per quanto riguarda la gestione del loro tempo; propenso ad assimilare il lavoro a una merce usa e getta, e incline a trasformare la flessibilità in precarietà senza reti di protezione. Una visione che ha già trovato applicazione in legge di Bilancio, con l’allargamento dell’uso dei voucher.

Ma di maggiore precarietà non abbiamo bisogno. Nei giorni scorsi l’Istat ha presentato i nuovi indicatori del Benessere equo e sostenibile, relativi al 2022. Ne emerge la pervasività del lavoro precario, che coinvolge in misura prioritaria: giovani, donne, lavoratori e lavoratrici del sud, immigrati, professioni non qualificate, persone con bassi titoli di studio.

Lavoro a termine

La forma precaria di gran lunga prevalente è il lavoro a termine, con ben 3,3 milioni di lavoratori, in aumento del 4,6 per cento rispetto al 2021. Sono in larghissima parte (più di 3 milioni) lavoratori dipendenti con contratti a tempo determinato, per il 17 per cento da più di cinque anni, e molto spesso, in un terzo dei casi per le donne, con part time involontari.

Il decreto interviene, ampliando ulteriormente le già molto ampie possibilità di ricorrere al contratto di lavoro a tempo determinato. Lo fa perché, come dice la relazione illustrativa, secondo il governo, la normativa attuale, che ha comunque già liberalizzato totalmente il ricorso a contratti di durata fino a 12 mesi, avrebbe «creato difficoltà applicative».

Lo fa allentando le regole sulle “causali” che disciplinano l’obbligo di motivare le ragioni oggettive che giustificano il ricorso alle assunzioni temporanee per contratti di durata fra i 12 e i 24 mesi. Causali necessarie, perché queste assunzioni dovrebbero essere l’eccezione, non la norma, così come non dovrebbe essere normale il fatto che vengano continuamente reiterate, anche ricorrendo alla sostituzione continua di un lavoratore con un altro, nel caso in cui le norme impediscano il rinnovo del contratto allo stesso lavoratore.

La nuova normativa prevede che i contratti in questione possano essere attivati sulla base di «specifiche esigenze» previste dai contratti collettivi nazionali delle associazioni più rappresentative sul piano nazionale. Ma, molto più discutibilmente, lo fa anche estendendo alla contrattazione aziendale la possibilità di individuare queste «specifiche esigenze».

Permette quindi ai contratti aziendali (in linea con l’impostazione del famigerato articolo 8 del dl 148/2011) di intervenire, anche in senso peggiorativo, sui diritti e le tutele riconosciute ai lavoratori. Senza, per giunta, richiedere che si tratti di contratti firmati dai sindacati più rappresentativi. Potrebbero quindi essere firmati da sigle sindacali create appositamente, come per i contratti pirata, funzionali alle sole esigenze datoriali, senza alcuna garanzia contro gli abusi ai danni dei lavoratori.

Viene poi aggiunta la possibilità, entro un perimetro non compiutamente definito, e cioè per specifiche esigenze di natura tecnica, organizzativa e produttiva «in assenza della previsione della contrattazione collettiva» (cioè se la contrattazione non c’è? O se c’è ma non disciplina i contratti a termine? O se non prevede quella particolare esigenza?) di ricorrere alla mera contrattazione individuale, fra il datore e il lavoratore.

Per attivare questi contratti individuali è richiesta solo la certificazione ex ante da parte dei soggetti abilitati. Certificatori privati, fra cui i consulenti del lavoro, senza nessuna funzione di rappresentanza, agirebbero quindi, non più per verificare che i contratti stipulati rispettino le norme e le regole contrattuali, ma per sostituirsi ad esse.

Sulla precarietà insiste anche la revisione che il decreto propone della misura di contrasto alla povertà, con l’effetto principale di ridurre del 30 per cento le risorse sino a ora destinate allo scopo. Per non decadere dal nuovo beneficio, il percettore dovrà accettare qualsiasi offerta di lavoro, anche di durata molto bassa, e, se di durata fra un mese e tre mesi, anche di poche ore al giorno. E lo dovrà accettare ovunque sia, anche se molto distante da casa, su tutto il territorio nazionale.

È il trionfo di quella “cattiva cultura”, che vede sempre il lavoro come l’ultimo anello della catena.

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