Nel maggio del 2024, presso la Paris School of Economics, l’economista francese Thomas Piketty e il politologo americano Michael J. Sandel si sono incontrati per discutere di uguaglianza e giustizia sociale, temi centrali nella loro ricerca. I materiali dell’incontro sono adesso raccolti in Uguaglianza. Che cosa significa e perché è importante (Feltrinelli, 2025). Piketty pone in rilievo come il divario monetario, pur decisamente inferiore oggi, rispetto ai livelli dei secoli passati, comporti anche una distanza sociale e una oggettiva difficoltà di accesso a beni e servizi primari.

Per Piketty e per Sandel, l’uguaglianza può essere considerata sotto tre aspetti, che riguardano l’economia, la politica e le relazioni sociali. Piketty sottolinea che, dopo il 1945, i socialdemocratici svedesi e i laburisti britannici sottrassero al profitto settori importanti, come la sanità e l’istruzione, che costituiscono circa il 25 per cento dell’economia. Le cose mutarono radicalmente nel corso degli anni Ottanta, quando la socialdemocrazia cominciò ad essere vista «come una sorta di prodotto finito o congelato».

Il welfare, nei trent’anni che seguirono il secondo conflitto mondiale, fu condiviso da opposti schieramenti politici. Lo dimostra il fatto che negli Stati Uniti, ad esempio, i repubblicani non misero in discussione il New Deal e, in Inghilterra, Churchill, nel 1951, non smantellò il welfare laburista. In parte dell’Europa e negli Stati Uniti l’aliquota massima dell’imposta sul reddito si aggirava infatti, fino agli anni Ottanta, intorno all’82 per cento.

La demercificazione dei servizi essenziali e un’equa redistribuzione richiedono un ingente prelievo fiscale, il principale nemico delle destre, che identificano nel taglio delle tasse il tratto fondamentale dei loro programmi. Bill Clinton e Barack Obama, come ha scritto Sandel in La democrazia stanca (1996), non si sono peraltro discostati tanto dalla linea neoliberale di Ronald Reagan. Gerhard Schröder e Tony Blair, per altro verso, non sono stati coerenti con la tradizione laburista e socialdemocratica da cui provenivano. Se la destra si schierava contro la tassazione progressiva, commenta Piketty, «la sinistra intellettuale non era smaniosa di difenderla».

Tassazioni nazionali e internazionali

Piketty insiste sulla dimensione transnazionale dell’uguaglianza, entro una visione di socialismo federale e partecipativo, in cui auspica, ottimisticamente, che si realizzi «una sorta di Stati Uniti del mondo con una tassazione progressiva». Sandel attribuisce un valore etico alla tassazione, che dovrebbe tener conto «dei legami, dell’appartenenza, della comunità, della solidarietà», valori che socialdemocratici e liberali tenderebbero a trascurare. Non si riconosce, inoltre, nel modello redistributivo delineato da John Rawls, che, a suo avviso, privilegia l’aspetto procedurale sulla solidarietà e la condivisione, considerando il principio di giustizia al di sopra di «una qualsiasi affermazione del bene e della vita buona».

I partiti socialdemocratici, che dalla metà del secolo scorso avevano archiviato il marxismo-leninismo, convivevano con una economia di mercato regolata. Avevano compreso, come sosteneva il leader socialdemocratico svedese Olof Palme, che il capitalismo è una pecora che va tosata, non abbattuta, dal momento che, per mantenere il welfare, occorre produrre ricchezza, e l’economia di mercato ha dimostrato di saperlo fare con maggiore efficienza rispetto alle economie pianificate.

Un concetto, questo, che i partiti comunisti, come il Pci, non riuscirono pienamente a far proprio, rimanendo nell’orbita del Cremlino, per poi, dopo il 1989, disperdersi in una nebulosa di posizioni spesso contraddittorie. Gli stessi socialdemocratici non ressero di fronte al mutare degli equilibri politici ed economici e quanti avevano pensato di addomesticare il mercato ne furono in realtà sopraffatti.

Nel suo Il Socialismo del futuro (2024) Piketty prende le distanze dai movimenti che rifiutano radicalmente il capitalismo e, al tempo stesso, guarda con distacco ai settori della sinistra sedotti dal neoliberismo e dall’idea dell’autoregolazione del mercato. Si avverte in lui, come in Sandel, la volontà di porre argini all’iniziativa individuale, a cui viene attribuito il peccato d’origine di mettere in ombra i bisogni sociali, ma l’esigenza di evidenziare i limiti del capitalismo e di porvi rimedio convive in loro con la consapevolezza che le disuguaglianze potranno essere ridimensionate, non del tutto superate.

Piketty e Sandel riconoscono che, in un mondo globalizzato, non si può pensare ad una semplice riedizione del welfare, attribuendo ancora allo stato il ruolo che ha svolto in gran parte del secolo scorso. La fluidità dei processi economici, nuove tecnologie, forme di occupazione inedite rispetto al passato, rendono inoltre difficile applicare una adeguata fiscalità ed elaborare equi meccanismi retributivi.

In queste considerazioni si possono cogliere gli echi delle Esortazioni e profezie di John Maynard Keynes, che nel breve saggio Liberalismo e laburismo (1926), individuava tre attori nel rapporto tra liberali e laburisti: i sindacalisti, «una volta oppressi oggi tiranni», i teorici della catastrofe e i riformisti. Molti liberali che, come lui, mettevano in discussione il Laissez-faire, proseguiva, avrebbero collaborato di buon grado con i laburisti riformisti, che avevano abbandonato la fede nel socialismo di stato. Riteneva che i liberali progressisti fossero avvantaggiati, in questo confronto, per il fatto di «non dover tributare un omaggio verbale alla tirannia tradunionista, alle virtù della lotta di classe, o all’ortodossia del socialismo di stato».

Efficienza economica e giustizia sociale

Il problema politico dell’umanità, concludeva, consisteva nel coniugare l’efficienza economica con la giustizia sociale e la libertà individuale. Se la giustizia sociale stava al centro del programma laburista, il primo e il terzo fattore richiedevano le qualità del partito liberale, che «per tradizione», rappresentava «la culla dell’individualismo economico e della libertà sociale». Le sue critiche al Laissez-faire e le aperture all’intervento dello stato, che non si identificava con un grigio controllo burocratico, lo avevano portato però a concludere una conferenza, tenuta nel 1925 alla Liberal summer school di Cambridge, con la celebre domanda: «Sono un liberale?».

Molte delle argomentazioni presenti nelle analisi di politici e studiosi vicini alla socialdemocrazia o al liberalismo progressista, come Piketty e Sandel, ruotano intorno alle questioni sollevate da Keynes un secolo fa, che tornano attuali proprio perché è risultato estremamente complicato rendere l’individualismo economico compatibile con la giustizia sociale. Paul Krugman ha scritto, in La coscienza di un liberal (2007), che, quando si promuovono politiche di assistenza, si rischia di passare per conservatori senza in realtà esserlo e si è accusati dalla destra liberista di essere nostalgici del welfare se ci si batte per estendere quei diritti già acquisiti che oggi vengono negati.

Dinnanzi alla concentrazione di potere economico e potere politico, che si afferma globalmente, potrebbe essere utile riprendere il discorso, citato da Krugman, che Franklin Delano Roosevelt pronunciò al Madison Square Garden poco prima delle elezioni del 1936. Il governo esercitato dalla finanza organizzata, affermò Roosevelt in quell’occasione, «è altrettanto pericoloso di quello esercitato dalla plebaglia organizzata», dimostrandosi compiaciuto dell’odio che i poteri da lui attaccati nutrivano nei suoi confronti. Leggere queste parole, commenta Krugman, «significa lasciarsi ricordare quanto prudente, quanto timoroso e garbato sia diventato il pensiero liberale dei giorni nostri».

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