Lo sciopero dei taxi che oggi hanno occupato Roma per chiedere il ritiro di un articolo del decreto concorrenza, quello che rivede tra le altre cose, il sistema delle licenze, è solo la punta dell’iceberg.

Già il 4 novembre i sindacati dei trasporti di Cgil, Cisl e Uil, avevano espresso estrema preoccupazione al ministro delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibile, Enrico Giovannini, sui provvedimenti del governo in questo settore, soprattutto sul decreto legge Concorrenza.

Fino a quando hanno potuto, i sindacati di categoria hanno sostenuto in silenzio le rendite di posizione in un settore chiuso alla concorrenza, e adesso, senza sorpresa per alcuno, si sono espressi contro il dispositivo legislativo varato dal governo.

Il tentativo dell'esecutivo è quello di rimuovere gli ostacoli regolatori all’apertura dei mercati, per garantire un maggiore sviluppo e una migliore tutela dei consumatori, e per applicare finalmente i principi del diritto dell’Unione europea in materia di libera circolazione e concorrenza e apertura dei mercati.

Si tratta, in ogni caso, di un pannicello caldo che – è bene chiarirlo – non costituisce affatto una robusta inversione di marcia ad un sistema normativo che ha permesso a manager, fornitori di beni e servizi, e dipendenti delle aziende di trasporto, di guadagnarci tutti qualcosa a spese degli utenti.

I manager hanno portato a casa alti salari e benefit ingiustificati nonostante i modesti servizi offerti alla cittadinanza a fronte dei loro alti costi.

I fornitori hanno continuato a dormire sonni tranquilli vendendo prodotti obsoleti e tecnologicamente arretrati che spesso erano i loro avanzi di magazzino. I dipendenti, infine, grazie all'elevato potere contrattuale dovuto all’appartenenza a settori strategici, hanno trasformato questo potere da sindacale a corporativo.

Sotto una pesante cappa consociativa dove si intrecciano gli interessi politici dei regolatori pubblici, quelli delle imprese sia pubbliche che private, e quelli delle “botteghe” sindacali, negli ultimi vent’anni si è praticamente solo parlato, senza mai fare nulla di concreto, di introdurre elementi di concorrenza nel sistema dei servizi pubblici.

Volutamente, si sono confuse le liberalizzazioni con le privatizzazioni, il mercato concorrenziale – come nel caso del decreto legge concorrenza – con il liberismo. Le leggi che prevedevano l'ingresso di regole concorrenziali o di sola simulazione della concorrenza nel trasporto locale, nelle ferrovie, nei porti, nel settore taxi e nelle autostrade sono rimaste inapplicate. Infatti, larga parte di questi ambiti sono gestiti tramite affidamenti diretti, proroghe di concessioni automatiche e gestioni in house.

L'avvio di un processo di liberalizzazioni tanto atteso per introdurre migliori servizi di trasporto pubblico e merci, in linea con l'emergenza ambientale e con la riduzione di costi (che nei servizi di trasporto pubblico locale sono superiori del 20 per cento alla media europea) ha fatto alzare ancora un incredibile muro ai sindacati. Un muro non nuovo, che combacia con quello alzato sotto banco dalle aziende, e che viene sostenuto anche da settori maggioritari dei partiti di governo.

È così che la proposta dell'Autorità della concorrenza, recepita dall’esecutivo in ritardo rispetto alle promesse – e che non è per nulla sconvolgente, ma nient’altro che il minimo sindacale, ha trovato l'opposizione dei sindacati confederali. E pure quella dei sindacati autonomi, dei quali però non c'è da sorprendersi per l'attaccamento corporativo generato dai monopoli.

Per loro, i settori dei trasporti, anche se inefficienti, vanno tenuti protetti, e con essi i trattamenti salariali e normativi di miglior favore. Cosa che sarebbe possibile solo a fronte di performance dei servizi ottimali e di costi pubblici in linea con quelli europei.

Non è più possibile che aziende con bilanci disastrosi e servizi scadenti (Atac, Alitalia ecc.) possano avere il sostegno dei sindacati che dovrebbero avere per missione la tutela dell'interesse generale (per questo sono conosciuti come confederali).

Nel caso italiano, la disparità di trattamenti contrattuali con altri settori industriali più performanti mette in discussione fino quasi ad annullarle le politiche solidaristiche e di equità che i sindacati confederali hanno praticato fin dalla sua nascita. Nel merito, le osservazioni dei dirigenti delle tre confederazioni lasciano più che perplessi.

Niente gare

Sul Trasporto pubblico locale praticamente non si fanno gare dal 1997, da quando cioè la prima legge di riforma ne prevedeva la possibilità. Da allora ci sono sempre stati affidamenti diretti, in particolare dei grandi comuni alle loro ex aziende municipalizzate diventate nel tempo spa.

Nonostante questo, la timida indicazione dell'Antitrust prevede soltanto che venga giustificato il motivo per cui si evita la gara ricorrendo all'affidamento diretto o in-house spesso senza adeguata giustificazione e trasparenza: una ennesima scappatoia per continuare ad avvalersi di questa possibilità.

In sostanza, i proprietari pubblici (comuni o regioni) dovrebbero almeno spiegare all'Antitrust quali vantaggi (occupazionali, di efficienza, di trasparenza, ambientali o altro) ci sono ricorrendo a questa pratica. Ma neppure questa domanda è lecita, per gli avversari del decreto legge Concorrenza.

Nel settore portuale, è messo sotto accusa il superamento del divieto di cumulo delle concessioni per gli operatori terminalisti, che potrebbe determinare un abuso di posizione dominante. In caso di disponibilità di spazi, non si vede perché questi non possono essere assegnati allo stesso operatore.

Se un solo terminalista occupa le banchine container di La Spezia, un altro potrà occupare quelle di Livorno o di Genova. In realtà sembra che l'attuale scarso utilizzo dei porti italiani e la necessità di un loro rilancio non sia alla base delle priorità sindacali.

Nella missiva al ministro Giovannini si legge inoltre che, invece di ringraziare il governo e i contribuenti per aver prorogato la cassa integrazione per migliaia di lavoratori di Alitalia per altri due anni senza alcuna condizionalità (ad esempio l’obbligo di frequentare corsi di formazione di settori diversi dal trasporto aereo, come in Germania dove i piloti in esubero stanno preparandosi per fare i macchinisti dei treni), i sindacati vorrebbero far pagare dallo Stato i 2mila euro necessari ai piloti per mantenere le abilitazioni che senza volare scadrebbero.

In pratica, sembra una questione decisiva assicurare 2mila euro a piloti che in cig percepiscono 8mila euro al mese.

Infine, anche il tentativo di mettere ordine, attraverso un’operazione di trasparenza e mappatura, alle licenze del settore dei servizi di mobilità urbana non di linea – che comprende oltre ai tassisti, anche Uber e noleggio con conducente (Ncc) – non piace ai sindacati.

Il governo ha annunciato un decreto legislativo che garantisca la promozione della concorrenza, anche in sede di conferimento delle licenze, al fine di stimolare standard qualitativi più elevati e di mettere ordine alla giungla di regolamenti comunali tesi a mantenere lo status quo.

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