Ieri Autostrade per l’Italia (Aspi), insieme alla società d’ingegneria Spea, sua controllata, ha chiesto alla procura di Genova, che si è dichiarata favorevole, il patteggiamento per il processo relativo al crollo del ponte Morandi, avvenuto il 14 agosto 2018 e costato la vita a 43 persone.

In attesa della decisione dei giudici, che si profila scontata in senso positivo, anche Egle Possetti, portavoce del Comitato in ricordo delle vittime del ponte Morandi, ha approvato la mossa: «Approviamo che la procura abbia dato parere positivo».

Tutti sono d’accordo, anche sulla cifra di 30 milioni che Aspi si è dichiarata disposta a pagare come pena pecuniaria che la procura di Genova trova «condivisibile, giacché corrisponde al risparmio di spesa realizzato dalla società mediante l’omissione dell’intervento che avrebbe evitato la commissione dei reati di omicidio colposo aggravato plurimo e di lesioni colpose aggravate plurime». I 30 milioni andranno allo stato, non alle vittime che sono state già risarcite.

La notizia è dunque che il crollo del ponte Morandi è stato determinato dalla decisione di risparmiare 30 milioni sulla sua manutenzione, il che la dice lunga sulle responsabilità e sullo stile gestionale della concessionaria autostradale che, negli anni precedenti al crollo del ponte di Genova, macinava utili netti a rotta di collo, circa il 25 per cento dei ricavi, fino a cifre vicine al miliardo di euro ogni anno che venivano distribuite agli azionisti, in primis la finanziaria Atlantia controllata dalla famiglia Benetton.

I due significati

Il significato di quanto accaduto ieri al tribunale di Genova va analizzato su due piani, il primo generale e il secondo più strettamente processuale. Sul piano generale il patteggiamento è la soluzione più naturale. Aspi è stata venduta da Atlantia alla Cassa depositi e prestiti, anche se tecnicamente l’operazione verrà perfezionata nei prossimi mesi, ed è quindi oggi una società statale.

Sarebbe singolare arrivare a un processo in cui una società controllata dal governo, che l’ha accusata di essere responsabile del crollo del Morandi e della morte di 43 persone, entrasse nel processo a protestare la propri innocenza non solo contro lo stato come pubblica accusa ma anche contro lo stato come suo azionista di controllo. Da questo punto di vista l’istituto del patteggiamento ha una sua ragionevole utilità, riconosciuta in questo caso anche dai parenti delle vittime.

Sul piano più strettamente processuale la cosa è più interessante. Una società come Aspi viene processata in sede penale in base al decreto legislativo 231 del 2001, che definisce la cosiddetta responsabilità amministrativa degli enti e delle società.

In base a quella che è comunemente nota come legge 231, il reato commesso dai dirigenti o dipendenti di una società chiama in causa la responsabilità della società stessa che viene accusata di non aver adottato «modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi» (articolo 6, comma 1 della legge 231).

In pratica si dà per acquisito che, nel caso specifico, i dirigenti di Aspi abbiano risparmiato sulla manutenzione del ponte Morandi, provocandone il crollo, e che la società non abbia fatto quanto in suo potere per prevenire che avvenisse un simile disastro.

Infatti la procura di Genova, nel documento con cui si è dichiarata favorevole, dà atto che Aspi, oltre a chiedere il patteggiamento, ha anche «eliminato le carenze organizzative all’origine degli illeciti commessi adottando e attuando un nuovo modello di organizzazione, gestione e controllo che appare idoneo a prevenire la commissione di reati analoghi».

Imputati nei guai

«C’è un’ammissione di colpa», dice dunque Possetti, e anche se la cosa non è automatica nel patteggiamento, anzi tecnicamente la esclude, qui la cosa appare palese nella sostanza, non tanto appunto per la richiesta di patteggiamento ma per la rivendicazione di aver attuato un nuovo modello di organizzazione.

L’idea che il ponte sia crollato perché Aspi non ha fatto abbastanza per prevenire la commissione del reato da parte dei suoi dirigenti complica la posizione processuale degli imputati, ammesso che ce ne fosse bisogno.

I numerosi dirigenti di Aspi e Spea chiamati alla sbarra per omicidio, capitanati dall’ex amministratore delegato di Aspi e Atlantia Giovanni Castellucci, di fatto si troveranno contro non più solo la pubblica accusa, le famiglie delle vittime e lo stato ma anche la società per la quale avrebbero conseguito i risparmi.

 

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