Insieme ai risultati elettorali, che misurano le scelte politiche degli italiani, è sotto i riflettori anche l’astensionismo. Su Domani Enzo Risso ne ha mostrato l’andamento storico crescente in età repubblicana, denunciandolo come vera «smobilitazione politica».

Dati interessanti. Che inducono a pensare, prima che alla smobilitazione, alla mobilitazione. Perché votare non è un istinto naturale come mangiare, o dormire, gesti che hanno una materialità immediata, evidente. Votare è un gesto sommamente immateriale, astratto, è un comportamento culturale, alla cui ragione si deve essere educati. Insomma, prima di chiedersi perché la gente non va a votare, ci si può chiedere perché ci va.

Perché votare

Nella storia i motivi sono i più vari: a) la costrizione, come nei “referendum” nelle dittature: su quello in corso nelle zone ucraine occupate bisognerà tornare; b) un impulso civico, che ha una storia lunga e variopinta: vivace nelle comunità repubblicane d’ogni tempo, intenso senz’altro nelle lotte per la democrazia dell’Italia dell’immediato dopoguerra, è poi plasmato dai partiti, come ha mostrato Piero Ignazi, sempre su Domani (cosicché l’attuale astensionismo misura anche l’affievolirsi dei partiti); c) infine, l’interesse, come è tipico nello scambio clientelare, il che spiega perché già all’indomani dell’unificazione l’astensionismo fosse minore nelle province del Mezzogiorno, che non avevano esperienza alcuna di rappresentanza.

Solo la prima e la terza motivazione – costrizione e interesse – seguono logiche materiali, evidenti, mentre alla seconda, il civismo, che ci piace di più, devono educare le istituzioni, vuoi quelle “private”, come la chiesa o i partiti, vuoi quelle pubbliche. I costituenti se ne occuparono, e scrissero nella Costituzione che il voto è «un dovere civico».

Nel 1957 un decreto – abrogato nel 1993 – stabilì poi che il cittadino che non avesse esercitato il diritto di voto era tenuto a darne giustificazione al sindaco, che «l’elenco di coloro che si astengono dal voto senza giustificato motivo è esposto per la durata di un mese nell’albo comunale» e che «per il periodo di cinque anni la menzione “non ha votato” è iscritta nei certificati di buona condotta».

Devo dire che la minaccia aveva un certo effetto su di me elettore dell’epoca, carico di spirito civico. Ma in quel caso, nel paese che lottava per estendere i diritti e mal maneggiava i doveri, si era pensato di infliggere uno stigma ai non votanti, soluzione autoritaria, di dubbia efficacia e scarsa ragionevolezza, oltre che di scarsa coerenza con lo spirito democratico.

Il ruolo della scuola

Nei paesi democratici infatti non è la fedina penale ma la scuola l’istituzione più adeguata a educare, anziché a reprimere o a imporre. Labili tracce di questo indirizzo si rintracciano anche in Italia. Recependo il dettato di una Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza votata dall’Onu nel 1989, anche in Italia una legge del 1997 ha previsto la costituzione di “consigli comunali dei ragazzi”, da eleggersi nelle ultime due classi delle scuole elementari e dalle prime due delle medie inferiori, i cui sindaci e consiglieri affianchino i consigli comunali con specifiche funzioni. Si tratta di una educazione alla pratica democratica assai diffusa in molti paesi.

Lo stesso accade con il Model United Nations, in cui gli studenti, in genere universitari ma anche liceali, organizzano fittizie sessioni dell’assemblea dell’Onu nelle quali familiarizzano con regolamenti, procedure, costruzione di accordi e formulazione di mozioni.

In Italia tutto ciò ha scarsissima applicazione, nonostante sia stata più volte proposta in parlamento l’estensione del voto ai sedicenni. Manca infatti ogni educazione civica. Con quel nome – oggi tradotto in “cittadinanza e Costituzione” – esiste nell’ordinamento scolastico una sorta di materia-non materia (lo scorso anno ne ha scritto, anche su Domani, Claudio Giunta).

Le direttive ministeriali ne indicano gli scopi. Gli insegnanti sono invitati a «favorire l’acquisizione di competenze interpersonali, interculturali, sociali e civiche, che consentano la partecipazione consapevole e responsabile alla vita sociale e lavorativa in società sempre più complesse». «Di particolare significatività risulta, in tale cornice, la possibilità di promuovere in ambiente scolastico la più ampia progettualità, la capacità di assumere un ruolo propositivo attivo e partecipe, ma anche la capacità di cogestire i problemi, di ipotizzarne le dinamiche sottostanti, di esperire le soluzioni più funzionali».

Ora, non si può pretendere che funzionari e consulenti ministeriali siano tutti astemi, ma vaneggiamenti simili andrebbero quantomeno controllati. La dicono lunga, comunque, sulla balbuzie, sullo smarrimento concettuale che accompagna la materia.

Il paese della libertà

Non contiamo dunque sulla scuola, e lasciamo che ciascuno faccia come gli pare, siamo nel paese della libertà. Ma attenti allora a cercare un significato all’astensionismo intendendolo come manifestazione di orientamento civico.

È il difetto di prospettiva che nell’Italia liberale – dove era già un progresso che molti andassero a votare – faceva dire che l’astensionismo era da addebitarsi ai cattolici, nemici dichiarati dello stato. E oggi? Alcuni elettori sono oggettivamente fuori dal mercato politico, o non sono nelle condizioni di accedervi. Ciò che un tempo poteva essere la distanza dal seggio, o i costi per raggiungerlo (da qui i convogli organizzati dai candidati), oggi può riguardare alcune dinamiche nella struttura dell’elettorato.

Le ha osservate Carlo Fusaro su Facebook: le liste elettorali comprendono cinque milioni di residenti all’estero, non sempre raggiunti dal sistema; sono triplicati gli over 75, tra i quali molti hanno difficoltà a muoversi; due milioni lavorano e studiano lontano (nulla è stato fatto per i “fuorisede”).

Depurato di queste assenze, l’astensionismo è pur sempre alto. Ma non può essere letto come consapevole espressione antipolitica. Del resto, il difetto di acculturazione riguarda anche i comportamenti di quanti intenzionalmente non votano. O che hanno smesso di votare, perché disillusi, disgustati, e che dunque credono di esprimere, sia pure con abbandonica disillusione, una opinione politica. Il loro è un comportamento comprensibile, ma basato su un equivoco, che appunto l’educazione civica dovrebbe dissipare. Pensando di mandare un segnale negativo, costoro non pensano che la loro è a tutti gli effetti una scelta che premia proporzionalmente i vincitori.

Questione non peregrina, più volte discussa. Che spazio dare all’astensionismo nella rappresentanza? Qualcuno ha ipotizzato di diminuirne la portata: se il 20 per cento degli elettori non vota, ci sarà il 20 per cento di seggi vuoti. Ma così non si fa altro che dare maggior potere agli 80 per cento. In teoria, si potrebbe stabilire che, rimasti silenti quei seggi, le delibere debbano avvenire con maggioranze qualificate, come se quei seggi fossero occupati. Non mi risulta che qualcuno ci abbia mai pensato.

Ma sarebbero meccanismi complessi, e di dubbia rispondenza ai principi costituzionali. Per ora, dunque, chi non ama la casta di rubagalline e di mangiapane a ufo che popola il parlamento sia almeno consapevole che astenendosi non fa altro che appoggiare rubagalline e mangiapane. A spiegarlo dovrebbe appunto contribuire una pedagogia costituzionale.

 

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