I segni a volte sono tagli sulle braccia, altre sono cicatrici mentali anche più profonde, di certo l’impronta che l’epidemia di coronavirus, l’impossibilità di rapporti sociali, di normale quotidianità, ha lasciato nelle nostre menti è stata sottovalutata.

«Voi non avete idea di cosa voglia dire vivere un’adolescenza negli anni della pandemia», rivendicano spesso i pazienti di Delfina Janiri, responsabile dell’ambulatorio dedicato agli adolescenti e giovani adulti affetti da disturbi dell’umore del Policlinico Gemelli.

Cento pazienti circa, dai 12 – 13 fino ai 25 anni, l’ambulatorio opera all’interno del servizio di psichiatria diretto dal professore Gabriele Sani e collabora col servizio di psicologia clinica della professoressa Daniela Chieffo e la responsabile del reparto di Neuropsichiatria infantile, Chiara Veredice.

È stato aperto appena prima dello scoppio conclamato dell’epidemia in Italia, a febbraio 2020, per rispondere soprattutto all’aumento di casi di autolesionismo e tentativi di suicidio registrato negli ultimi anni tra giovani e ragazzi.

La pandemia ha poi portato rapidamente a un aggravamento dei casi già in cura, a un aumento degli accessi di nuovi pazienti, in un periodo in cui già si registrava un abbassamento dell’età di pazienti che necessitano l’ospedalizzazione. Ragazzini anche di dodici, tredici anni che hanno comportamenti di autolesionismo - in inglese si usa l’asettico cutting per indicare chi si procura ferite sulla pelle, un fenomeno diffuso soprattutto tra le ragazze – o tentativi di suicidio.

Il tempo dei ragazzi

«Mi sembra importante sottolineare che sono i ragazzi la categoria più colpita dall’epidemia», dice Janiri. «Ricordatevi cosa sono stati nella vostra esistenza i quindici – sedici anni, la percezione di quel tempo, in cui un anno della vita ne vale dieci, in cui si vivono le prime esperienze che coinvolgono la sfera emotiva fuori dalla famiglia, il confronto con i pari e con l’altro sesso, che servono a costruire una propria identità: gli adolescenti si strutturano proprio nell’apertura al mondo».

Costringerli a chiudersi al mondo, significa privarli della capacità di costruirsi una struttura, uno scheletro che li regga. All’ambulatorio del Gemelli si sono resi conto che le ondate di gravità, con pazienti già seguiti che si aggravano e nuovi pazienti ricoverati per atti di autolesionismo gravi, avevano una corrispondenza con alcuni momenti della pandemia.

Picchi nei momenti più difficili quando siamo stati privati di tutte le occasioni di sfogo, degli strumenti con cui tutti limitiamo o cerchiamo di limitare i momenti di angoscia: un viaggio, l’attività sportiva, le parole di un amico. Ovviamente picchi con la chiusura delle scuole, il loro universo sociale. Ma anche, forse meno prevedibilmente, al momento della ripresa, della riapertura, quando sono stati chiamati a reinserirsi in quella vita collettiva.

«Il ritorno a scuola per noi è stato un momento altrettanto complicato, per molti ragazzi il ritorno a confrontarsi con gli altri ha significato fare i conti con un’ansia da prestazione difficilmente gestibile», dice la responsabile dell’ambulatorio. Il tutto mentre molti dei servizi intermedi che potevano intercettare quel disagio sono saltati o si sono ridimensionati, con l’assistenza psicologica delle scuole o privata spesso trasferita online.

«Enorme»

I ragazzi ovviamente non sono stati le sole vittime dell’epidemia che è entrata nelle nostre teste. Nel rapporto 2021 sullo stato di salute dei paesi Ocse, redatto dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo, è scritto testualmente che l'impatto della pandemia sulla salute mentale è stato «enorme». 

Nei paesi per cui sono disponibili i dati, la prevalenza di ansia e depressione registrata nel periodo pandemico è stata più del doppio rispetto ai livelli osservati prima della crisi.

In Italia la percentuale di persone che soffrono di sintomi di depressione è passato da poco più del cinque per cento al 17 per cento, e persone che hanno testimoniato di essere affette dall’ansia è pari al 20 per cento, una su cinque.

Il problema è che mentre ansia e depressione aumentavano con questa forza d’urto, i servizi di assistenza diminuivano.

Secondo un articolo firmato dai membri del comitato esecutivo dell’associazione di psichiatria italiana, citato proprio dall'Ocse, agli inizi dell’aprile 2020, quindi a un mese dall’inizio del primo rigido lockdown, in Italia erano chiusi il 14 per cento dei centri pubblici per la salute mentale, approssimativamente erano stati chiusi il 78 per cento dei servizi di day hospital. I contatti «non urgenti» con pazienti di salute mentale erano stati ridotti del 75 per cento.

Le consultazioni psichiatriche per gli ospedali erano diminuite del 25 per cento, le psicoterapie individuali del 60, quelle di gruppo del 90 per cento.

Dopo questa ondata di sofferenza, l’ultima manovra finanziaria ha il merito di aver finanziato maggiormente il sistema sanitario e di aver anche prorogato e accresciuto i finanziamenti per il reclutamento straordinario degli psicologi. La legge di bilancio stanzia, infatti,19,9 milioni di euro sia per il 2021 che per il 2022. Per il Lazio per esempio significa fondi a disposizione per 1,9 milioni di euro, per la Lombardia 3,3 milioni.

Non tutti però sono stati toccati ugualmente. Se le donne sono in media più affette da disturbi come ansia e depressione, durante la pandemia, scrivono gli studiosi dell’Ocse, le esistenti differenze di genere nella prevalenza di ansia e depressione sono aumentate, in particolare colpendo le lavoratrici con figli. Negli Stati Uniti il divario di genere nei problemi di salute mentale è aumentato addirittura del 66 per cento negli stadi iniziali della pandemia tra marzo e aprile 2020.

E i figli, che cosa è successo ai figli?

«Alcuni si sono ritrovati chiusi in casa con famiglie violente o in contesti conflittuali, obbligati a gestire la situazione in modo differente, a inventarsi altri modi di reagire», dice Janiri.

Oggi che aumentano di nuovo i contagi e si parla di una quarta ondata, il timore è che si prendano decisioni avventate sulla scuola. Quei giovani che descriviamo troppo spesso come a loro agio nel mondo virtuale hanno bisogno, secondo la dottoressa, di rapporti in presenza. Di parlare, certo, protetti da mascherina e distanze di quello che ci è successo in questi mesi. E noi con loro.

© Riproduzione riservata