Saad deve tornare in Egitto perché la madre si è ammalata gravemente. Ma non può, perché fa il rider a Como e con l’assenza perderebbe i punti di eccellenza, retrocederebbe nella classifica per prenotare gli orari di consegna migliori, intorno al pranzo e alla cena, quindi non guadagnerebbe più abbastanza per mandare i soldi alla madre o addirittura potrebbe essere disconnesso dalla piattaforma, in pratica licenziato. Stefano è caduto, frattura scomposta e operazione alla tibia destra, ma il giorno dopo le dimissioni dall’ospedale è già in sella, anche lui per non perdere il punteggio e la prelazione sui turni migliori. Sono passati esattamente due anni da quella sera del 29 maggio 2020 in cui centinaia di carabinieri del Comando per la tutela del lavoro (struttura specializzata collegata con il ministero del Lavoro e guidata dal generale Gerardo Iorio) hanno scattato migliaia di istantanee come queste in tutte le città italiane, contemporaneamente. Una specie di foto aerea della nuova schiavitù occidentale, uomini resi invisibili dalla loro stessa visibilità, ora che nessuno fa più caso al loro scivolare veloci nel traffico.

Due anni fa era appena finito il primo lockdown che aveva reso indispensabili i nuovi schiavi della consegna a domicilio. Un boom che ha attirato l’attenzione della procura di Milano e dei Carabinieri. Ne è venuto fuori un impressionante mosaico di immagini, da Aosta a Ragusa, del caporalato urbano. Una vera maxi inchiesta: sono stati controllati oltre 60mila ciclofattorini. I carabinieri del nucleo tutela del lavoro hanno chiesto e ottenuto di essere affiancati dai comandi territoriali di tutte le province d’Italia. Non esiste un’altra indagine così estesa e capillare neanche in ambito accademico. Da nord a sud, i carabinieri hanno trovato ovunque la medesima scena nelle piazze orfane della movida e tra i locali aperti solo per l’asporto: uno sfruttamento al limite dello schiavismo, un servizio a comando, con tanto di divisa messa in conto al lavoratore (60 euro da restituire), un tritacarne contrabbandato da lavoro autonomo, da “imprenditori di se stessi”. Grazie alla pandemia il cosiddetto delivery food (o cibo ordinato a casa) è diventato un’abitudine di massa. Le aziende del settore realizzano introiti record. Dopo cinque anni di crescita a doppia cifra, nell’ultimo anno il giro d’affari del settore è più che raddoppiato grazie al Covid. Nel segmento del cibo di qualità (non il panino o la pizza ma il piatto da ristorante) l’Italia è ora sesta nel mondo in base a una graduatoria della Deloitte. Eppure nei due anni trascorsi dal silenzioso blitz stradale dei carabinieri la condizione di sfruttamento di quei lavoratori non è cambiata, in barba alle sentenze, alla legge, agli accordi formalmente a favore di una assunzione dei rider come lavoratori dipendenti. Al contrario, il rider, runner o ciclofattorino si è mimetizzato nel paesaggio urbano. La sua condizione di sfruttato è genericamente nota e raccontata persino nelle fiction Rai come Bangla. Ma non sembra destare indignazione o protesta. Anche perché i nuovi schiavi sono diventati più invisibili, paradossalmente, anche per gli stessi mandanti, che siamo tutti noi che allegramente ci diciamo “ordiniamoci un pizza”.

L’abitudine creata dal Covid

Resta però la foto aerea dei carabinieri e magari è meglio guardarla con attenzione mentre aspettiamo una nuova direttiva europea, di cui si è iniziato a discutere a Bruxelles, e nuovi interventi normativi anche in Italia. La sera del 29 maggio del 2020, una serata calda ma ancora non così tanto, con i cartelli “andrà tutto bene” appesi alle finestre dei palazzi, oltre mille carabinieri nelle principali città d’Italia si schierarono davanti a ristoranti, pizzerie, fast food per la maxi operazione d’inchiesta sulle condizioni di lavoro di quelli che allora erano “angeli su due ruote”. Furono verificate le posizioni di 60.511 rider al servizio di quattro piattaforme di delivery food: Glovo, Deliveroo, Uber Eats e Just Eat.

Da tangentopoli ai rider

Il rapporto su quel maxi blitz, coordinato dal colonnello Antonino Bolognani per la sostituta procuratrice Maura Ripamonti, è pieno di storie. Gli squarci più lancinanti vengono dal monitoraggio delle chat di auto-aiuto degli stessi rider. Un trentacinquenne di Benevento si sfoga sulla community: «Lavoro da sette mesi per Glovo, ho fatto 750 consegne e ho avuto solo due recensioni negative, sono sempre cortese, affidabile, professionale. Il giorno della befana ho difeso un mio collega novellino, che lavora solo da dieci giorni, accusato da un manager della McDonald’s di aver mangiato il panino di un ordine che aveva in corso. Ad ascoltare le mie parole il manager in stretto dialetto campano con aria altezzosa mi diceva di farmi da parte, che la questione non mi riguardava. Mi sono alterato e abbiamo avuto una discussione poi finita lì dopo cinque minuti. Ho portato a termine la mia giornata lavorativa e il giorno dopo viene il bello. Ricevo una telefonata da Glovo Italia che mi disattiva l’account per comportamento scorretto senza nemmeno diritto di replica o sentire spiegazioni». Mostafà racconta di aver aspettato più di un’ora sotto casa di un cliente che era uscito e non rispondeva al cellulare e di essere stato obbligato dall’assistente vocale della piattaforma a ritornare più volte all’indirizzo del cliente, per un compenso totale di 3 euro e mezzo. «Mi dispiace per la tua situazione», si scusa alla fine l’assistente vocale. «Mi dispiace un paio di coglioni», gli risponde Mostafà in un romanesco un po’ formale.

Due terzi dei rider intervistati dai Carabinieri sono stranieri con permesso di soggiorno in attesa dello status di rifugiato, in maggioranza provengono dall’Africa subsahariana. Ma sono molti anche gli italiani, soprattutto nei centri più piccoli e al sud, per lo più cassintegrati o disoccupati. Mentre sparuta è la pattuglia di studenti che vogliono integrare la paghetta dei genitori, immagine classica delle pubblicità delle piattaforme. Quella realtà simpatica e rassicurante quasi non esiste. La maggior parte degli intervistati ammette di avere questa come principale fonte di sostentamento, di rendersi disponibile almeno quattro o cinque giorni a settimana e alla fine di ottenere paghe che possono variare dai 300 agli 800 euro al mese e che possono arrivare a mille euro ma solo lavorando dieci ore al giorno e a patto di non perdere terreno nella gara forsennata a chi fa più consegne, più lontano, in tempi record, sotto il sole o la pioggia, sfidando gli incidenti e i furti, talvolta rischiando la vita. Le tariffe variano da piattaforma a piattaforma, da città a città, spesso sono di appena 1,60 euro a chiamata più 0,40 a chilometro e 0,05 a minuto per l’attesa oltre i cinque minuti regolamentari, a conti fatti dai 2,60 ai 3,50 euro a consegna per una media di 6 euro all’ora, secondo i calcoli dei Carabinieri.

Il rischio e il guadagno

I militari dell’Arma schierati davanti ai punti di incontro appurano che mascherine e gel disinfettanti sono stati acquistati dai lavoratori a loro spese e che solo in un secondo tempo e una sola volta sono stati parzialmente rimborsati. Scoprono che molti lavoratori, specialmente gli stranieri a cui consegnano il questionario multilingue, non hanno mai saputo che contratto hanno firmato, che i mezzi sono propri come a loro carico ne è la manutenzione.

E scrivono a conclusione dell’ispezione una considerazione decisiva: «Le piattaforme hanno bypassato quasi completamente la figura del dipendente fattorino sostituendola con quella del rider, a loro detta lavoratore autonomo di tipo occasionale, inizialmente nei grandi centri urbani ma, nell’ultimo periodo, con forte accelerazione anche nelle piccole province. Così facendo hanno scaricato la responsabilità del servizio, e tutti i relativi costi (costo del lavoro più mezzi ed attrezzature), dai ristoranti partner e l’hanno caricata completamente sulle spalle dei rider. La piattaforma, pur guadagnando con l’intermediazione tra domanda ed offerta e relativo servizio di trasporto, non ha, allo stato attuale, nessuna responsabilità sul servizio prestato ma guadagna dallo stesso. Parte del guadagno viene rimesso al rider con bonifico al netto delle ritenute fiscali». Se ne deduce che il profitto della piattaforma è estratto interamente dal rider, dalla sua salute e dai suoi diritti.

Spiega così il rapporto dei Carabinieri: «La piattaforma ha un guadagno netto, calcolato in difetto, senza nessun rischio d’impresa, di circa 2 euro per ogni consegna. Moltiplichiamo per le migliaia di consegne giornaliere, il cui volume sembrerebbe essere aumentato di oltre il 70 per cento negli ultimi mesi, ed ecco materializzarsi gli introiti milionari che permettono a queste società di quotarsi in borsa, di essere main sponsor di squadre sportive di livello nazionale, di fare campagne pubblicitarie milionarie sulle maggiori emittenti televisive».

Dalle chat intercettate si capisce la micidiale efficienza di quella estrazione di profitto. Ecco le ripetute denunce sulle modalità di pagamento del chilometraggio, perché la app valuta sempre e soltanto il percorso più breve. Alcuni postano foto di grandine e neve per denunciare i pochi spiccioli della “indennità maltempo”, pari al 10 per cento dell’ordine. Altri mostrano radiografie di ossa rotte e foto di arti tumefatti. Alex racconta di essere caduto: si rialza, riparte e quando arriva a destinazione si accorge che l’ordine dentro lo zaino è distrutto, chiama l’assistenza ma risponde la voce registrata. Non gli resta che annullare l’ordine, non ha altra strada che essere penalizzato: caduto e bastonato dalla app che gli sottrarrà punteggi di affidabilità. Un ragazzo racconta di essere tornato al lavoro appena il giorno dopo una operazione per non retrocedere nel punteggio - il cosiddetto ranking - e quindi non rischiare di non ricevere più ordini dalla app. Ed è proprio sulla questione del famigerato ranking che si concentrano molte discussioni.

Frank, algoritmo licenziato

Il ranking di reputazione è un chiodo fisso per i rider più esperti, come verificano i carabinieri nelle chat interne. Nel caso della multinazionale britannica Deliveroo si basa su un algoritmo proprietario di auto-apprendimento brevettato con il nome di Frank. È Frank che decide il punteggio di affidabilità e partecipazione. Ed è Frank che finisce alla sbarra nel novembre del 2020, sei mesi dopo il maxi blitz, accusato dalla magistrata di Bologna Chiara Zompì di operare una implicita discriminazione nell’accesso alle occasioni di lavoro sulla app. Frank infatti non prende in considerazione le ragioni improvvise e legittime per cui il lavoratore non si presenta all’appuntamento e non si registra a tempo debito per essere geolocalizzato: un malore, un infortunio, la malattia di un figlio minore. Il collegio legale della Cgil aveva presentato denuncia contro questa ottusità di Frank e di chi lo aveva programmato così. Perché in ultima analisi, secondo i sindacalisti, non garantiva il diritto di astensione dal lavoro per sciopero e infrangeva la vasta normativa anti discriminatoria del diritto del lavoro in Italia. Alla fine Frank è stato condannato, o meglio la società Deliveroo è stata condannata per lui al pagamento di 50mila euro di penale.

«È una sentenza che tutti i sindacati europei ci invidiano», dice Silvia Simoncini, segretaria nazionale del Nidil-Cgil. Perché, spiega, è la prima volta che un giudice riconosce come la tecnologia degli algoritmi, che modifica nel profondo l’organizzazione del lavoro, non sia neutra ma orientata dalle aziende a proprio beneficio. L’ordinanza di Bologna è il primo varco che si apre verso la contrattazione dell’algoritmo gestionale. Frank è stato licenziato ma ciò non ha alleviato l’ansia da prestazione dei rider. Adesso concorrono ai posti più redditizi in un modo persino più selvaggio, impegnati in una corsa a chi arriva prima a prenotare i turni, detti “sessioni di slot”, attraverso il meccanismo del cosiddetto “free log-in”: chi prima arriva meglio alloggia.

«Questa schiavitù deve finire», disse a chiusura delle indagini il procuratore capo di Milano Francesco Greco. La procura all’inizio del 2021 era intenzionata a chiedere per le quattro piattaforme del delivery imputate una multa sostanziosa, pari a 733 milioni di euro, per violazione del Testo unico sulla sicurezza sul lavoro. La sentenza è arrivata a metà maggio di quest’anno, poche settimane fa, e ha ridimensionato gli ardori iniziali. Il collegio dei difensori, nel quale spiccava la presenza dell’avvocata Paola Severino – ex ministra di Grazia e Giustizia, ex rettrice dell’università confindustriale Luiss e attuale presidente della scuola nazionale di amministrazione – ha ottenuto il riconoscimento degli sforzi delle aziende della gig economy per recepire le prescrizioni di sicurezza sul lavoro con corsi di formazione di qualche ora. La procura ha archiviato le pendenze degli amministratori delegati mantenendo solo una sanzione pecuniaria molto più leggera: appena 90mila euro. Non esiste nessun obbligo di riconoscimento generalizzato del lavoro dipendente dei rider. Nonostante sia prima che dopo la maxi inchiesta milanese i giudici di Torino, Firenze, Palermo e ancora Milano e persino la Cassazione su casi singoli abbiano sempre riconosciuto ai rider il diritto ad essere assunti almeno come collaboratori coordinati e continuativi (co.co.co), quindi o subordinati o almeno parasubordinati.

Assunzioni da poco

La piattaforma Just Eat ha in effetti assunto circa 6 mila ciclofattorini in varie città italiane grazie ad un accordo di secondo livello firmato con Cgil Cisl e Uil che applica il contratto nazionale trasporto merci e logistica. «Però con questi 6 mila Just Eat ha abusato dei contratti di part time, naturalmente involontario, e con un monte ore basso», spiega Angelo Avelli di Deliverance Milano, branca milanese delle Union Riders, il sindacato informale di base della categoria. Il fatto è che, mentre il governo cercava di migliorare lo scandaloso trattamento dei rider, c’è stata una spaccatura delle parti sociali. Cgil Cisl e Uil hanno firmato con la piattaforma Just Eat un accordo conforme alla legge 128 del 2019, detta “la legge dei rider”, ma il resto delle imprese, riunite nell’associazione Assodelivery, ha siglato un contratto pirata con il sindacato di destra Ugl per il quale il rider resta un lavoratore autonomo da pagare a cottimo. Soltanto ai primi di maggio di quest’anno i sindacati maggiormente rappresentativi sono riusciti a firmare, sulla scia del precedente con Just Eat, un secondo accordo con la piattaforma MyMenù per l’assunzione di altri 500 ciclofattorini tra Milano, Brescia, Bologna, Modena, Padova e Verona.

I rider continuano dunque a vivere nel loro limbo, senza alcun paracadute neanche in caso di disoccupazione. Non hanno neanche potuto accedere alla recente estensione della Naspi per i lavoratori autonomi o attingere ai vari bonus Covid. Se guadagnano sotto i 5mila euro non sono neanche censiti, anche se non appena inizierà la formalizzazione della comunicazione obbligatoria di avvio del lavoro per tutti, istituita lo scorso aprile attraverso una circolare ministeriale, si dovrebbe almeno sapere quanti sono davvero in Italia. I sindacati confederali sperano che, in vista della prossima direttiva europea in tema di lavoro su piattaforma, il ministro del Lavoro Andrea Orlando voglia anticiparne le regole, magari con una legge ad hoc.

Consumo critico?

Ma direttiva e legge sono ancora da scrivere. Probabilmente la norma europea si ispirerà ai parametri rarefatti e generici del modello “ethic by design” raccomandati dal World Economic Forum per un uso della tecnologia, soprattutto se applicata all’organizzazione del lavoro, che valorizzi la dignità della persona. Sotto questo aspetto le più forti novità emergono sul lato del consumo critico. Da circa un anno si sta radicando in Italia una nuova app del delivery food che vuole raccogliere un pubblico eticamente e ambientalmente consapevole. Si chiama Gorillas, è una start up berlinese già uscita dalla fase gestazione con oltre un miliardo di euro di valutazione. Gorillas ha come particolarità di portarti a casa la spesa, scegliendo marchi rigorosamente bio e molto cool, in un battibaleno. E questo quick service viene assicurato dai “biker”, cioè di rider dotati di bici o motorini rigorosamente elettrici.

Fondata da Kağan Sümer, appassionato cicloamatore, la società si fa pubblicità sostenendo di utilizzare per i suoi trasporti solo ciclisti assunti, pagati 10,80 euro all’ora lordi, con tute e mezzi forniti dall’azienda. Si tratta di un modello di business per la nicchia dei consumatori consapevoli, ma il suo successo segnala la crescente difficoltà di continuare a far finta di non vedere lo sfruttamento da negrieri imposto a chi ti porta a casa una cosa buona da mangiare. Gorillas ha assunto tutti i suoi biker fin dal primo giorno, recentemente però è passata dal contratto del commercio a quello della logistica, abbassando un pò i minimi salariali. Si sa, le imprese tendono ad allinearsi all’ambiente prevalente. Infatti la società ha annunciato una riduzione di personale in vista di una contrazione del mercato italiano. Questa però è un’altra storia.

(continua)

 

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