Negli ultimi anni gli economisti sono diventati onnipresenti nel dibattito pubblico, star da social e da talk show che si combattono a colpi di follower spesso anche su temi che esulano dalle loro competenze.

A parte questi eccessi mediatici, è indubbio che la figura dell’economista abbia ripreso posto tra i consiglieri del principe, un principe che oggi deve districarsi tra crisi “epocali” che si succedono con frequenza decennale e gestire i cambiamenti strutturali necessari per assicurare la sostenibilità economica, sociale e ambientale delle nostre economie.

Colpisce come nel dibattito di politica economica lo spazio pubblico nell’ultimo anno sia stato quasi completamente occupato dal Pnrr, vasto programma di investimenti e riforme volto a estrarci definitivamente dalla crisi del https://www.editorialedomani.it/search?q=Quentin+Tarantino rilanciando la crescita e la transizione ecologica e digitale. 

Rapporti difficili con il principe

Tuttavia, i rapporti tra il principe e il consigliere-economista non sono sempre facili, perché il primo si ostina a non seguire pedissequamente le ricette proposte dal secondo.

È abbastanza illuminante, al riguardo, osservare la progressiva disaffezione che molti economisti hanno mostrato nei confronti del governo Draghi, accolto nel febbraio del 2021 come antidoto all’incompetenza della politica e come il solo, per il suo prestigio europeo, a poter portare l’Italia fuori dalle secche e a fare le riforme necessarie.

Gli stessi economisti dopo qualche mese, davanti alle scelte dell’esecutivo, constatavano desolati che «aveva vinto la politica» e che la (loro) scommessa sul tecnocrate Draghi era perduta.

Appare quindi un paradosso evidente. Mai come oggi il policy maker si è trovato a dover gestire e orientare i processi economici, a cercare la difficile quadratura del cerchio tra il contrasto quotidiano a una crisi che si trascina e la pianificazione di un futuro (molto più prossimo di quanto non si pensi) in cui la nostra organizzazione economica e sociale dovrà essere molto diversa da quella attuale.

Mai come oggi, in altri termini, si è posto il problema di scegliere tra politiche alternative che comportano distribuzioni radicalmente diverse di costi e benefici tra categorie e anche tra generazioni. Proprio in questa fase, in cui il suo lavoro sarebbe più utile per informare il decisore e aiutarlo a valutare il più precisamente possibile le conseguenze delle proprie scelte, l’economista si limita a proporre soluzioni chiavi in mano, frutto di un ordinamento supposto oggettivo e di una lettura univoca di modelli teorici ed evidenza empirica. 

La verità dei dati

Perché gli economisti hanno difficoltà a concepire che il ruolo del decisore non sia quello di selezionare la soluzione ottimale ma di scegliere tra opzioni ugualmente legittime, in base a valori, potere negoziale, capacità di compromesso?

Perché, rispetto ad altre discipline come la storia, le relazioni internazionali, il diritto, gli economisti sono meno capaci di accettare il primato della politica, cui l’esperto si dovrebbe limitare a prestare competenze perché le scelte siano il più informate possibili? Perché sostengono al contrario che questa debba solo adottare la “migliore” soluzione ai problemi, fornita dal tecnocrate?

L’analisi empirica in questo quadro ha un ruolo preciso, quello di rivelare “la verità”: i dati non mentono, danno il verdetto finale sulla bontà o meno di una teoria, di un modello, aiutando a ordinare le misure e a scegliere la migliore.

Questa pretesa di oggettività, tuttavia, non ha ragione di essere. In primo luogo, perché, in economia come in tutte le scienze sociali, la raccolta e l’organizzazione dei dati non è sempre agevole, e alcune variabili devono essere approssimate (come si quantificano le “aspettative”?).

Ma c’è una seconda ragione, più fondamentale, per cui cercare verità oggettive nei dati è una missione impossibile. Le stime empiriche vengono effettuate utilizzando dei modelli, che sono per definizione delle rappresentazioni semplificate della realtà.

E la semplificazione, che per sua natura riflette le convinzioni del ricercatore, comporta la “chiusura” di alcuni nessi causali, e l’apertura di altri. La stima empirica, in altre parole, avviene costringendo i dati in una gabbia concettuale data dal ricercatore e quindi non neutra. Il che ovviamente non vuol dire che qualunque analisi empirica sia inutile (anzi!), ma solo che raramente essa può essere dirimente. 

Concezione semplicistica

Alcuni ricorderanno, dopo la caduta del muro, il dibattito sulla transizione delle economie ex sovietiche, che vide prevalere i fautori del “big bang”, l’introduzione rapida e simultanea di tutte le riforme, dalla liberalizzazione degli scambi e dei prezzi, alla convertibilità della valuta, le privatizzazioni, fino alla creazione del quadro legale necessario al funzionamento di un’economia di mercato.

L’idea era che i mercati, liberati, potessero “saltare” al nuovo equilibrio. La storia si è incaricata di mostrare come questa strategia fosse velleitaria, suggerendo che un approccio più gradualista e una maggiore attenzione agli effetti distributivi del processo di privatizzazioni avrebbero consentito un calo meno marcato del Pil, limitando inoltre l’emergere di una casta di oligopolisti che si sono appropriati delle risorse del paese.

Si possono fare molti altri esempi di come la concezione semplicistica fin qui descritta conduca a politiche economiche errate.

Si prenda il caso del mercato del lavoro. Se l’obiettivo è quello di rimuovere gli ostacoli al libero operare di domanda e offerta, le raccomandazioni di politica economica non possono che essere volte a eliminare (o perlomeno ridurre) il potere di mercato dei corpi intermedi (che con mercati efficienti non hanno nessun ruolo da giocare), gli ostacoli ai licenziamenti, i salari minimi e ogni altra forma di rigidità delle retribuzioni.

Non solo, devono essere limitati anche altri strumenti passibili di distorcere gli incentivi, come sussidi di disoccupazione troppo generosi o forme di reddito di base che spingano i lavoratori a uscire dal mercato dal lavoro. 

Mentre il consenso pre crisi raccomandava di perseguire la flessibilità dei mercati del lavoro, la crisi finanziaria globale ha dimostrato che la capacità di costruire relazioni a lungo termine con i lavoratori è fondamentale, insieme a flussi stabili di finanziamento, per garantire un’adeguata accumulazione di capitale da parte delle imprese.

Distruzione creativa

L’incapacità a dar conto della complessità di una teoria basata sull’allocazione efficiente da parte dei mercati contribuisce a spiegare perché le riforme in Europa non hanno portato i frutti attesi: infatti, esse per la loro stessa natura distruggono risorse in alcuni settori e creano il potenziale per svilupparne in altri, più dinamici e produttivi.

Non c'è nulla di ineluttabile in questo processo di distruzione creativa, però; e una maggiore flessibilità dei mercati dei prodotti e del lavoro non necessariamente lo facilita.

Può accadere, ad esempio, se l’economia si trova in recessione, che i lavoratori espulsi dai settori tradizionali non vengano assunti in quelli più dinamici, cui a causa della crisi mancano sbocchi, ma riciclati in lavori precari, a bassa retribuzione. Quindi, la riforma potrebbe alla fine portare più polarizzazione e disuguaglianza.

L'accumulazione di capitale umano e la crescita di lungo termine potrebbero risentirne e l’effetto sarebbe opposto a quello voluto. Il momento in cui si attua la riforma è altrettanto importante del contenuto della riforma stessa.

Questa banale verità è stata solo recentemente incorporata nell’analisi di istituzioni come il Fmi, l’Ocse, la Commissione europea. È quindi chiaro perché la figura dell’economista sia nel dibattito pubblico così screditata e poco ascoltata dai decisori.


La versione integrale di questo articolo è sul prossimo numero della rivista il Mulino da titolo La vocazione intellettuale in uscita il 17 marzo

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