Andrey Melnichenko è stato il più rapido: il 9 marzo, il giorno in cui è finito sulla lista nera delle sanzioni di Unione europea, Stati Uniti e Gran Bretagna, ha lasciato la partecipazione in EuroChem, gigante dei fertilizzanti chimici con sede a Zug, cittadina svizzera a bassa tassazione, fondato dopo essere stato uno dei primi banchieri della Russia post sovietica. Così come le partecipazioni nel primo produttore di carbone russo, Suech, con sede a Mosca. Solo la prima valeva 17 miliardi di dollari su un patrimonio stimato da Bloomberg circa 21,4 miliardi.

In tutto, i super ricchi russi sanzionati nelle ultime settimane, hanno perso almeno 90 miliardi dollari, secondo l’agenzia americana. Alcuni però sono stati più veloci di altri a liberarsi delle partecipazioni e a incassare plusvalenze. La EuroChem ha macinato e continua a macinare profitti nel mezzo della fiammata delle materie prime, altri patrimoni invece hanno subito ripercussioni pesanti.

Le perdite

Vladimir Potanin, il 60esimo uomo più ricco al mondo e il più ricco di Russia, ha perso poco meno di otto miliardi dall’inizio dell’invasione russa, quasi un terzo dei 30 miliardi di patrimonio che gli venivano attribuiti in precedenza.

Alexey Mordashov, il 77esimo uomo più ricco al mondo, ne ha persi nove miliardi: la sua ricchezza ora è scesa sotto la soglia dei venti miliardi. Michael Fridman, nato a Leopoli in Ucraina, ha perso due miliardi di dollari in pochi giorni. Potanin, Mordahov e Fridman sono esempi perfetti di quelli che gli analisti chiamano oligarchi di stato.

Nati nei primi anni Sessanta, le loro biografie sono accomunate dalla partecipazione all’abbuffata delle privatizzazioni dell’èra Eltsin, l’ex presidente russo. Hanno raggiunto la ricchezza nella prima metà degli anni Novanta, l’hanno poi investita nel business delle materie prime, moltiplicandola.

Questo mantenendo rapporti con il potere statale senza parteciparvi attivamente. La loro generazione ha una caratteristica non comune alle altre élite nazionali, cresciute nello stesso periodo storico.

Detengono una quota nazionale di ricchezza privata molto maggiore rispetto al reddito del paese. Un’analisi sui redditi e le proprietà in Russia dal 1906 al 1916, realizzata da Filip Novokmet, Thomas Piketty e Gabriels Zucman, dimostra che nel 2016 la ricchezza degli oligarchi russi valeva circa il 30 per cento del reddito complessivo dell’intero paese.

Cifre che non si ritrovano nei paesi dell’Europa orientale, una volta territori dell’Urss. All’inizio degli anni Novanta, riportano gli economisti, il dieci per cento più ricco in Russia possedeva il 25 per cento del reddito nazionale. Superata la metà del decennio, la loro quota di reddito era salita al 45 per cento, mentre la metà più povera della popolazione passava dal 30 per cento ad appena il dieci.

Potanin, in particolare, è passato da essere funzionario pubblico a finanziere, e nei primi anni Novanta si è inventato il sistema di prestiti in cambio di azioni. Ha fatto in modo che lo stato russo, in crisi di liquidità, cedesse quote di aziende di stato ai suoi creditori.

È il 1995 quando Potanin con il socio Mikhail Prokhorov acquisisce la prima partecipazione nella Norilsk Nickel, il primo produttore di nichel e palladio russo, per circa 170 milioni di dollari. Oggi la società vale 17 miliardi di dollari.

La vita di Mordashov, invece, è cambiata nel giro di quattro anni: dal 1992 al 1996, allóra meno che trentenne, è passato dal ruolo di direttore finanziario dell’acciaieria di stato a quello di amministratore delegato della stessa acciaieria, trasformata da Eltsin in società per azioni rastrellando la maggioranza delle azioni dai lavoratori.

Oggi resta il maggiore azionista della acciaieria Severstal, ma ha investimenti diversificati, dal credito alle telecomunicazioni. Anche lui è nella lista nera delle sanzioni europee.

Fridman è considerato uno dei finanziatori della rielezione di Eltsin alla metà degli anni Novanta e con la sua banca commerciale, AlphaBank, uno dei creditori della ex nomenclatura sovietica. Dalla fine degli anni Novanta ha iniziato ad acquisire partecipazioni petrolifere in aziende cedute dallo stato e poi ricomprate: nel 1997 acquisì il 40 per cento della ex società statale Tnk, creata una joint venture con Bp se la vide riacquistare dalla azienda petrolifera Rosneft nel 2013 per la modica cifra di 27,7 miliardi di dollari.

Anche lui sanzionato dall’Unione europea, Fridman ha fatto dichiarazioni contro la guerra di Vladimir Putin che hanno avuto molta eco.

Tuttavia, il legame degli oligarchi con l’attuale potere russo è spesso frainteso ed è fraintesa la loro reale capacità di influenza sulle decisioni politiche di Mosca.

Un’influenza limitata

«È estremamente difficile per gli oligarchi di stato, che sono influenti nei loro “domini”, siano essi petrolio, gas, banche o il complesso militare-industriale, influenzare la politica al di fuori di queste aree», spiegava nell’estate del 2021 in un’analisi per il Carnegie center di Mosca, Tatyana Stanovaya, divenuta analista politica dopo aver lavorato nella rappresentanza della Severstal di Mordashov.

Secondo Stanovaya, gli oligarchi si sono progressivamente allontanati dai circoli conservatori che attorniano Putin e il rapporto con l’amministrazione dello stato negli ultimi anni è cambiato: «Gli oligarchi amici del governo si rivolgono a Putin non tanto per partecipare alla politica in corso, ma con richieste di aiuto: per allocare risorse finanziarie, approvare una legge redditizia e ottenere benefici».

I lobbisti degli oligarchi pensano ai loro affari. Lo stesso Putin considererebbe alcuni dei loro interessi in contrasto con lo stato. L’aumento dei profitti delle grandi società di materie prime registrato nell’ultimo decennio ha rafforzato l’economia russa e le aspirazioni di Putin, ma contemporaneamente gli oligarchi di stato sono diventati inconsapevolmente i maggiori oppositori di una politica anti occidentale e isolazionista.

Le perdite che sta subendo la cerchia degli oligarchi di stato dimostrano che le sanzioni occidentali stanno decisamente funzionando, ma gli oligarchi non sono più così di stato da far cambiare idea a Putin.

 

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