Fino a quindici anni fa a nessuno sarebbe mai venuto in mente di chiedere a un pizzaiolo che farina avesse utilizzato. Gli impasti erano rigorosamente bianchi e allungando lo sguardo alle sue mani oltre il bancone era facile vederlo spargere un tappeto candido usato come letto su cui stendere la palletta. Modello unico: le pizze erano zero zero (00, per dirla in numeri).

Quando nel 2010 venne scritto il disciplinare di produzione della Specialità tradizionale garantita (Stg) “Pizza napoletana”, pubblicato in Gazzetta Ufficiale nel marzo di quell’anno, l’unico riferimento riportato era all’utilizzo di farina di grano tenero, senza alcuna specifica: mentre per altri ingredienti, come la mozzarella, veniva sottolineata l’importanza dell'origine campana, non si faceva alcun riferimento alla regionalità o nazionalità della materia prima necessaria a realizzare il disco di pasta su cui si poggia la farcitura.

È un dato di fatto: la ricetta della pizza, mito fondante e orgoglio nazionale, il nostro unico street food riconosciuto ed esportato (come immaginario) in tutto il mondo, non poggia su basi nazionali, non ha mai previsto l’uso di farine italiane. «Già dal tempo dei romani, il nostro paese è stato deficitario di cereali, in particolare di grano tenero.

E questo è vero oggi più che allora, per il numero di abitanti e per il profilo di consumo” sottolinea Claudio Bongiovanni, presidente della Borsa europea del commercio, punto d’incontro dal 1961 dei mercati cerealicoli di 12 paesi. La produzione nazionale, spiega, copre circa un terzo del fabbisogno (tenendo insieme le farine per pane, biscotti, pizze e quella che usiamo nelle case, oltre all’export).

Nel 2021, secondo Italmopa – l’Associazione industriali mugnai d’Italia, che fa parte di Confindustria – sono stati lavorati 5,3 milioni di tonnellate di frumento di grano tenero, per un totale di 3,93 milioni di tonnellate di farine, oltre i tre quarti utilizzati per produrre pane, biscotti e lievitati, meno di un decimo per fare la pizza.
«Le migliori pizze migliori, quelle più digeribili, vengono fatte con lievitazioni molto lunghe, lente. Per ottenere questo risultato servono farine con determinate caratteristiche, in particolare un reticolo proteico importante», racconta Bongiovanni.

Queste caratteristiche non si trovano nel grano tenero italiano ma sono prevalenti in alcuni grani coltivati nella provincia canadese di Manitoba, da cui hanno preso il nome. “In Italia l’abbiamo scoperta durante la Seconda guerra mondiale, perché gli alleati buttavano dagli aerei sacchi di juta con quella farina dentro» ricorda Bongiovanni, la cui azienda, Molini Bongiovanni, ha sede a Torino. Reticolo proteico importante si traduce in una lettera, la W. Indica la forza della farina.

Secondo Bongiovanni, l’esigenza di cercare farine in Europa e nel resto del mondo ha contribuito a qualificare il lavoro dei mugnai, chiamati a «gestire grani di altre provenienze». «In Italia oggi facciamo le migliori farine al mondo e per questo le esportiamo anche in Brasile, in America o in Giappone, dove sono vendute a un prezzo dieci volte superiore a quello delle farine locali» sottolinea il suo collega Riccardo Agugiaro, amministratore Delegato di Agugiaro&Figna Molini.

Il successo della pizza made in Italy, insomma, deriva dalla capacità di selezionare e miscelare grani esteri a quelli italiani. Nascono così ricette per ogni tipo di pizza: quella tonda, quella napoletana con il cornicione, quella in teglia alla romana, quella fermentata con lievito madre e quella con lievito di birra, quella fermentata all’aperto e quella che invece riposa nelle celle. Sono, in alcuni casi, anche “farine su misura”, che rispondono alle esigenze diverse di ogni pizzaiolo.

«A Londra, quanto meno nella nostra esperienza, resiste il mito della “double zero flour”, difficile da rompere» racconta Matteo Aloe. Nel 2010 ha aperto in provincia di Bologna la pizzeria Berberè, oggi una piccola catena con 15 insegne in Italia e 2 a Londra (la seconda aperta proprio a fine ottobre). Dall’inizio, ha scelto di usare solo farine biologiche e di tipo 1, cioè meno raffinate.

«All’inizio parlavamo con i clienti, uno a uno, spiegando loro il processo di fermentazione e lievitazione con lievito madre, a temperature sopra i venti gradi, e la farina di tipo 1, che all'epoca, anche se erano solo dodici anni anni fa, ci chiedevano cosa fosse» ricorda Aloe. Dal 2013 lavora con Alce Nero. «Abbiamo scelto una farina che arriva dai campi dell'Emilia-Romagna, meno forte: ho rinunciato all'effetto wow della spinta con i super alveoli da fotografare. Se guardi foto d’epoca, oggi la pizza di Berberè può sembrare un po’ più bassa, ma non diventa gommosa, e con l'avvento del delivery questo permette di mangiarla tutta» conclude.

Matteo Aloe è uno dei pizzaioli che hanno creato una domanda e contribuito ad aggiungere un elemento di ricerca per i mugnai italiani: un prodotto 100 per cento italiano con cui sia possibile fare la pizza. «La farina italiana è in grado di interpretare la pizza come nessun'altra. La provenienza nazionale del grano permette di dare al prodotto anche un risvolto legato al valore della filiera, che ha significati sociali ed ambientali che vanno oltre la qualità organolettica» sottolinea Piero Gabrieli, direttore marketing di Petra-Molino Quaglia.

Il suo mulino ha in catalogo una trentina di referenze per pizza. Alcune sono biologiche, tutte di grano italiano macinato a pietra. I cereali sono coltivati da aziende agricole inserite all’interno di una filiera. Secondo Gabrieli, una fase nuova nel mondo della pizza è iniziata quindici anni fa. In quel periodo, Molino Quaglia promosse il primo corso di formazione intensivo rivolto a pizzaioli che non offriva loro solo capacità per migliorare la tecnica di impasto, ma lavorava sugli aspetti nutrizionali e sull’utilizzo di ingredienti freschi, per elevare il prodotto.

Filiera sembra una parola d’ordine. Quella di Bongiovanni si chiama AntiQua, coinvolge 46 agricoltori tutti piemontesi chiamati a rispettare un disciplinare di coltivazione, seguiti da agronomi del Consorzio agrario e dall’Università di Torino. In cambio ricevono un premio di produzione: il cereale è ritirato a un prezzo superiore a quello di mercato.

Macinata a pietra, la farina - di tipo 1 o tipo 2, contiene tutte le parti del chicco - dev’essere consumata entro sei mesi. Riccardo Agugiaro parla invece di Oirz, acronimo che sta per origine italiana residuo zero, una filiera agricola certificata tutta umbra, lavorata al Molino Fagioli di Magione (Pg), che fa parte del gruppo. «Ai clienti che acquistano questa farina, diciamo che stanno comprando un prodotto “imperfetto”, nel senso che ogni lotto sarà diverso e va lavorato al meglio» dice.

Sono farine che ogni pizzaiolo deve capire: l’impastatrice, la macchina, ha bisogno dell’artigiano, la mano. «Parlare di pizza gourmet è una distorsione semantica. La realtà è quella di un mercato in crescita, di un pubblico capace di apprezzare» sottolinea Gabrieli di Molino Quaglia. Nel 2021, il mercato delle farine per la produzione pizza è cresciuto di quasi un dieci per cento (+9,7 per cento). E tutti, ma proprio tutti, sono alla ricerca di un prodotto nuovo. Anche Autogrill, che in collaborazione con uno dei migliori pizzaioli d’Italia, il veneto Renato Bosco, ha studiato una nuova base partendo dalla pizza in pala romana, croccante e alveolata, con tempi di lievitazione molto lunghi. “La solita pizza? Non da Autogrill!” il claim scelto per lanciare la partnership sul sito.

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