Da più di trent’anni il simposio agostano dei banchieri centrali di Jackson Hole, una sperduta cittadina nel Wyoming, dà il tono della politica economica dei paesi avanzati per i mesi a venire. Tanto per fare un esempio, è a Jackson Hole che, nel 2014, l’allora presidente della BCE Mario Draghi fece l’importante discorso in cui chiamava (inascoltato) i governi europei in soccorso di una politica monetaria impotente, perorando la causa di un vasto programma di investimenti pubblici. Il simposio di quest’anno avrebbe dovuto essere quello della normalizzazione, dopo la pandemia. Nelle scorse settimane si è dibattuto su come e quando la banca centrale americana, la Fed, dovrebbe cominciare a drenare l’enorme massa di liquidità iniettata nell’economia.

Di quel dibattito abbiamo già parlato su queste pagine; per i falchi il recente aumento dell’inflazione e la politica di bilancio espansiva (soprattutto, ma non solo, negli Stati Uniti) sono segnali di un’economia a rischio di surriscaldamento e richiedono un’immediata svolta in senso restrittivo delle politiche monetarie. Altri sostengono che l’aumento dell’inflazione è con tutta probabilità temporaneo e senza il sostegno delle banche centrali e dei programmi di investimento pubblico che dispiegheranno i loro effetti nei prossimi anni, l’economia dei paesi avanzati rischierebbe di riscivolare verso la stagnazione secolare.

La variante delta rimescola le carte

Molti osservatori si attendevano che il Chairman della Fed Powell venerdì a Jackson Hole facesse proprie almeno in parte le preoccupazioni dei rigoristi.  Powell si è cimentato in un delicato esercizio di equilibrismo, riuscendo a dissipare un po’ dell’incertezza dei mercati riguardo alle mosse future della Fed, senza impegnarsi in un calendario preciso né dare l’impressione di un ritorno alla normalità che nel contesto attuale sarebbe stato poco comprensibile. La variante delta, infatti, ha rimescolato le carte e ci prepara un altro autunno anomalo, di attività economica perturbata. In questo contesto, anche il solo annuncio della normalizzazione della politica monetaria avrebbe potuto dare il segnale sbagliato a imprese e consumatori; è importante, in questa fase di fiducia altalenante, che le autorità di politica economica segnalino che lo stimolo sarà mantenuto finché necessario. Powell ha chiarito alcune cose: in primo luogo, la Fed continua a ritenere temporaneo il recente aumento dell’inflazione; se è così, esso non deve preoccupare ma, al contrario, essere accolto con favore, perché consente di recuperare parte del lungo periodo di prezzi stagnanti. In secondo luogo, e questo ha rassicurato i falchi, Powell ha indicato che se i miglioramenti del mercato del lavoro continueranno nei prossimi mesi (le cose vanno bene ma non benissimo: ad oggi, mancano all’appello ancora sei milioni di occupati rispetto ai livelli di pre-pandemia), la riduzione degli acquisti di titoli inizierà prima di quando inizialmente previsto. Il Chairman della Fed è stato molto attento a non dare una data precisa; e si è anche premurato di chiarire, che la fine del programma di acquisti di nuovi titoli non significa una svolta in senso restrittivo, visto che la Fed non intende liberarsi dei titoli a lungo termine detenuti, ma solo di smettere di incrementarne la quantità. Infine, ma non da ultimo, la Fed terrà scrupolosamente distinte le decisioni sugli acquisti di titoli dalla politica dei tassi di interesse. Se per i primi venerdì si è annunciato l’inizio della normalizzazione, per i secondi il calendario definito qualche mese fa non è cambiato e non ci saranno aumenti fino al 2023. Insomma, Powell ha indicato un possibile anticipo della normalizzazione, ma ha segnalato che se pure smetterà di spingere l’economia statunitense, la Fed non ritiene che sia arrivato il momento di frenarla. La maggiore chiarezza su ciò che succederà nei prossimi mesi e la disponibilità a continuare a sostenere l’economia in un contesto di incertezza sanitaria e macroeconomica, hanno convinto i mercati, con i tassi di interesse sui titoli di Stato in ribasso (moderato) e le borse positive.

Gli effetti sull’economia europea

Quale sarà l’impatto del policy mix americano sull’economia europea? La persistenza di tassi bassi in linea di principio è una cattiva notizia, perché essi contribuiscono alla debolezza del dollaro e quindi alla competitività dell’economia statunitense. Tuttavia, la letteratura recente mostra che il canale del tasso di cambio può essere dominato da un aumento della domanda dall'economia statunitense e dal contributo della politica dei tassi americana alla stabilità finanziaria, che generano entrambi ricadute positive. Le banche centrali dovranno tuttavia essere vigilanti. Il sostegno (da una parte e dall’altra dell’oceano) all’economia ha fino ad oggi contribuito alla stabilità macroeconomica e quindi finanziaria. Ma ha anche gonfiato i prezzi degli attivi, sollevando i timori di una bolla finanziaria, almeno negli Stati Uniti. Questo rischio potrebbe avere un impatto significativo anche sulla zona euro nel medio e lungo termine. Non dobbiamo poi dimenticare che negli Stati Uniti continua a dispiegarsi un massiccio programma di stimolo di bilancio che spingerà la domanda anche per i beni europei; l’effetto sull’economia globale delle pressioni inflazionistiche di questi mesi (tanto più se temporanee) è invece al momento più difficile da valutare. Se porterà ad un aumento sostanziale dei tassi, potrà comprimere la domanda globale. Ma se i tassi aumentassero meno dell’inflazione il costo reale del denaro potrebbe ridursi dando ulteriore stimolo all’economia.

Insomma, gli effetti delle politiche statunitensi sull’economia europea saranno con ogni probabilità positivi nel medio periodo. Oltre il 2022 è difficile fare previsioni, ma i timori dei falchi sembrano eccessivi: le banche centrali fino ad oggi hanno mostrato di essere capaci di sostenere l’economia senza sottovalutare i rischi (al momento limitati) di surriscaldamento e di instabilità finanziaria. È tuttavia utile ricordare, in conclusione, che se è vero che nei prossimi trimestri potremo contare sulla locomotiva americana, sarebbe suicida adagiarsi, come è stato fatto negli anni successivi al 2008. Le chiavi della nostra crescita sono nelle politiche macroeconomiche e industriali europee a partire, ma non solo, dal Recovery Fund. La politica monetaria europea al momento fa quello che deve. È importante che la politica di bilancio segua. In fin dei conti, la crescita dei prossimi anni non potrà venire da Washington, ma da Roma, Berlino e Parigi.

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