Durante la settimana che si è appena chiusa ci sono state molte novità sul fronte europeo. In primo luogo, si è sbloccata la trattativa sulla riforma del Patto di Stabilità, la norma che regolerà le politiche di bilancio dei paesi europei per i prossimi anni. Su questo tema si disegna un compromesso che sembra molto deludente, sul quale il Diario Europeo dovrà tornare una volta noti i dettagli dell’accordo.

L’altra notizia è la divaricazione tra la banca centrale americana, la Fed, e le banche centrali europea e inglese. Apparentemente, I tre istituti hanno adottato la stessa strategia, decidendo di lasciare invariati i tassi d’interesse, a fronte di un’inflazione in caduta libera e al rallentamento dell’economia: per il nostro paese, proprio l’altro ieri la Banca d’Italia ha rivisto al ribasso le stime di crescita e inflazione per il 2024, stimate allo 0,6%, e all’1,9% rispettivamente (l’inflazione italiana sarà sotto all’obiettivo della BCE). Ma per le banche centrali ciò che si dice è importante quanto ciò che si fa; e mentre la Fed ha annunciato che nei prossimi mesi (salvo sorprese, ovviamente) inizierà ad allentare le redini, riducendo il proprio tasso di interesse, la Bank of England e la BCE si sono rifiutate di annunciare tagli a breve.

I salari aumentano ma la spirale non si vede

Per comprendere questo atteggiamento, che resta aggressivo e orientato alla restrizione monetaria, si può leggere l’intervista al Financial Times del governatore della Banca Centrale del Belgio, Pierre Wunsch, annoverato tra i falchi all’interno del Consiglio della Bce. Sostiene Wunsch che, se i dati sull’inflazione sono buoni (è utile peraltro notare che, come molti di noi si ostinano a dire da mesi, l’inflazione continua a smentire gli istituti di previsione, scendendo più in fretta del previsto), la dinamica dei salari desta preoccupazione. Nell’eurozona, infatti, questi nel terzo trimestre del 2023 sono saliti del 5,3%, il ritmo più elevato degli ultimi dieci anni.

Il governatore belga evoca il rischio che questo aumento dei salari pesi sui costi delle imprese inducendole ad aumentare i prezzi e innescando ulteriori rivendicazioni salariali; fin tanto che la dinamica dei salari non sarà sotto controllo, afferma Wunsch, occorrerà mantenere il freno tirato. Ancora una volta, insomma, a giustificare la politica orientata alla restrizione monetaria è la spirale prezzi-salari, evocata dai partigiani dell’aumento dei tassi fin dal 2021, ma fino ad oggi non materializzatasi. Coloro che, come Wunsch, temono la spirale prezzi-salari, citano l’esperienza, degli anni Settanta, quando effettivamente la rincorsa salariale aveva alimentato un’inflazione progressivamente fuori controllo. Il paragone sembra a prima vista calzante, visto che in entrambi i casi è stato uno shock esterno (l’energia) ad avviare l’aumento dei prezzi; ma in realtà non occorreva attendere il calo dell’inflazione per comprendere che il rischio di una spirale prezzi-salari fosse sopravvalutato e da molti utilizzato strumentalmente. Rispetto agli anni Settanta, infatti, molte cose sono cambiate (ne parlo in dettaglio in Oltre le Banche Centrali, pubblicato recentemente da Luiss University Press): i meccanismi di indicizzazione automatica sono stati aboliti, il potere negoziale dei sindacati è di molto diminuito e, in generale, la precarizzazione del lavoro ha ridotto la capacità dei lavoratori di portare avanti le proprie rivendicazioni. Per queste e altre ragioni negli ultimi trent’anni la correlazione tra prezzi e salari si è fortemente ridotta.

Gli anni Settanta sono un’eccezione

Ma gli anni Settanta in realtà sono un’eccezione, non la norma. Un recente studio di ricercatori del Fondo Monetario Internazionale guarda all’esperienza storica e mostra come in passato le fiammate inflazionistiche siano state generalmente seguite con ritardo dai salari., Questi tendono infatti a cambiare più lentamente dei prezzi, per cui un aumento dell’inflazione non è seguito da un adeguamento immediato delle retribuzioni e inizialmente si assiste a una riduzione del salario reale (corretto per il costo della vita). Quando nel medio periodo le retribuzioni finalmente recuperano il terreno perduto, il salario reale torna al livello di equilibrio, allineato alla crescita della produttività.

Se la stessa cosa avvenisse in questo frangente, ritengono i ricercatori del Fondo Monetario, dovemmo non solo aspettarci, ma augurarci una crescita dei salari nominali che continui robusta ancora per qualche tempo, ora che l’inflazione è tornata a livelli ragionevoli: guardando ai dati pubblicati da Eurostat osserviamo infatti che per l’eurozona i prezzi sono aumentati del 18,5% dal terzo trimestre 2020 al terzo trimestre del 2023, mentre la crescita dei salari si è fermata al 10,5%. I salari reali, quindi, la misura del potere d’acquisto, sono diminuiti dell’8,2%. Il nostro paese ha visto un’evoluzione simile dei prezzi (+18,9%), ma una quasi stagnazione dei salari (+5,8%), con il risultato che il potere d’acquisto è crollato del 13%. E le cose sono peggio di come sembra: in primo luogo, la convergenza dovrebbe ritenersi conclusa non quando i salari reali saranno tornati ai livelli del 2021, ma dopo.

Se in questi anni la produttività è cresciuta, il nuovo livello di equilibrio dei salari reali sarà più alto. In secondo luogo, anche quando i salari si saranno riallineati con la crescita della produttività, rimarrà un vuoto da colmare; durante questo periodo di transizione, in cui i salari reali sono inferiori al livello di equilibrio, i lavoratori stanno sopportando una perdita di reddito che non sarà compensata (a meno che il salario reale non cresca più della produttività per qualche tempo). Da questo punto di vista, quindi, è importante non solo che la forbice tra prezzi e salari venga richiusa, ma che questo avvenga il più in fretta possibile.

Evitare politiche autolesionistiche

Contrariamente a quanto molti (più o meno in buona fede) affermano, insomma, Il fatto che i salari in questo momento crescono più dei prezzi, non è l’inizio di una pericolosa spirale e l’indicatore di un ritorno dell’inflazione; piuttosto, è la prevedibile seconda fase di un processo di riequilibrio che, sottolineano i ricercatori del Fondo Monetario, è non solo normale ma necessario.

La conclusione merita di essere sottolineata il più chiaramente possibile: se la BCE o i governi nazionali cercassero di limitare la crescita dei salari con politiche restrittive, non agirebbero solo contro gli interessi di chi ha pagato il prezzo più alto per lo shock inflazionistico. Ma, in modo autolesionistico, impedirebbero di concludere l’aggiustamento e quindi di metterci definitivamente alle spalle l’episodio inflazionistico.

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