I rischi di una cattiva governance societaria sono intrinsechi alle società quotate a capitale misto pubblico-privato, dove lo stato ha il controllo ma con una quota minoritaria. La prima ragione è che il governo che nomina i vertici si trova inevitabilmente in un potenziale conflitto tra i propri interessi politici e quelli economici. Questo conflitto può assumere diverse forme.

L’interesse del governo a mantenere il controllo pubblico ostacola la crescita della società, che non può fare acquisizioni tramite emissioni di azioni proprie per non diluire l’azionista di controllo. I dividendi delle partecipate sono una componente rilevante degli introiti di Cassa depositi e prestiti, e dello stato in generale, a cui le finanze pubbliche non possono rinunciare; questo potrebbe portare a una distribuzione di utili troppo generosa e a un eccessivo indebitamento.

Poiché governo ed enti locali controllano l’intera filiera dell’energia da fonti fossili, la transizione ambientale confligge inevitabilmente con i loro interessi economici. E poiché molte delle aziende a partecipazione pubblica derivano i ricavi da tariffe, lo stato azionista ha interesse a una regolamentazione generosa, aumentando il potere negoziale delle sue partecipate nei confronti del regolatore, i cui vertici sono nominati con il placet del governo.

Difficile poi per una partecipata pubblica operare una ristrutturazione per rimanere competitiva: le ricadute occupazionali danneggerebbero il consenso per il governo. Infine, i criteri di nomina, o conferma, dei vertici aziendali non sono trasparenti, come non lo sono gli obiettivi assegnati al management: un fattore di rischio per gli altri azionisti, che non sanno quanto il loro investimento sarà influenzato da interessi politici.

La tornata di nomine

Tutto questo vale per qualsiasi governo. Ma questa tornata di nomine ha portato a una degenerazione della governance delle partecipate pubbliche, già di per sé lontana dalle migliori pratiche internazionali: la sensazione è che si sia applicato uno spoils system da pubblica amministrazione, con tanto di lottizzazione, con Lega, FdI e Forza Italia ha spartirsi le nomine.

Per la prima volta, queste nomine hanno provocato la protesta vocale di alcuni investitori di Enel, che hanno presentato una propria lista di candidati all’assemblea societaria per ottenere i posti in consiglio di amministrazione che vengono assegnati alle “minoranze” (che pure detengono il 76 per cento del capitale).

Si è data molta evidenza, giustamente, all’infelice scelta di nominare presidente Paolo Scaroni, responsabile, quando era ai vertici dell’Eni, della dipendenza italiana dal gas russo (e dal gas in generale, aggiungo): scelta che rende più complessa e costosa la transizione alle rinnovabili.

Ci sono però delle critiche molto più rilevanti che non hanno ricevuto adeguata attenzione, e che spiegano perché alcuni investitori istituzionali abbiano reso esplicita l’opposizione alle scelte del governo: non era mai successo, anche perché un conflitto con il governo in genere non giova agli investitori istituzionali che operano in Italia, e preferiscono votare con i piedi, vendendo.

La sostituzione di Starace

Bisognerebbe piuttosto chiedersi quali siano state le ragioni della mancata riconferma dell’amministratore delegato uscente, Francesco Starace. Se si guarda ai risultati, non ce ne dovrebbero essere altre che volontà di lottizzare.

Starace ha infatti trasformato Enel in una multinazionale leader globale nelle rinnovabili, attirando l’interesse di investitori internazionali, assai poco attenti agli equilibrismi della politica e molto, invece, ai propri legittimi interessi che, se vengono affossati, provocano sonore proteste.

Starace è stato alla guida di Enel dal 2014: da allora i ricavi e i profitti ante imposte sono cresciuti rispettivamente del 4 e del 17 per cento medio annuo, garantendo un tasso dividendo all’azionista stato cresciuto fino ad arrivare all’8 per cento di quest’anno contro una media del 4,8 di società comparabili europee.

La crescita è avvenuta grazie all’aver capito prima degli altri le opportunità offerte dalle rinnovabili, intuendo, come poi si è verificato, che la forte crescita del settore avrebbe permesso ritorni crescenti per via dell’abbattimento dei costi degli impianti resi possibili dalle economie di scala. Grazie anche al fatto al 2008, Starace era stato amministratore delegato di Enel Green Power, la società dedicata alle rinnovabili, quotata nel 2010, e infine incorporata nuovamente in Enel.

Le maggiori opportunità di investimento non erano in Italia ma in giro per il mondo: è vero che dei 55 GW di potenza installata in rinnovabili circa il 26 per cento sono in Italia, ma si tratta principalmente di impianti idroelettrici di vecchia data, e del geotermico di Lavarello che risale all’inizio del Novecento; la quota di solare ed eolico è risibile, ma non per demerito dell’Enel ma per i ben noti ostacoli amministrativi alla costruzione di parchi su vasta scala e alla dipendenza dal gas. Così oggi il nord America pesa per il 20 per cento, ben 31 l’America latina, il 17 l’Europa e il rimanente nel resto del mondo: 1.200 impianti in 25 paesi.

La strategia giusta

La trasformazione in multinazionale è stata la logica conseguenza di questa strategia, come quella di sfruttare il maggior rendimento assicurato alla distribuzione elettrica dalla regolamentazione in aree come, per esempio, l’America latina.

Una strategia premiata dagli investitori con una valutazione in Borsa passata da 9,6 volte gli utili del 2014 a un massimo di 22,7 volte nel 2021, facendo di Enel quell’anno la seconda maggiore società elettrica al mondo, dopo l’americana NexTra.

Negli anni di Starace, il titolo è salito dell’82 per cento rispetto al 41 del settore europeo, nonostante da gennaio 2022 Enel abbia perso il 14 per cento. La performance da inizio 2022 è associata a una caduta del multiplo di valutazione degli utili atteso per quest’anno a 9,8 volte, a forte sconto del 14 medio delle aziende comparabili europee.

È per questa ragione che Starace è stato rimosso? Non credo. Due potrebbero essere le critiche mosse alla sua gestione: aver finanziato l’espansione con un indebitamento eccessivo proprio quando è arrivata la salita dei tassi, e aver disperso gli investimenti in troppi paesi per poter essere gestiti in modo efficace e redditizio.

I dati però smentiscono questa critiche: è vero che il debito in rapporto al margine operativo è salito da 2,4 volte del 2014 al 3,1 di quest’anno, più elevato del 2,8 della media di aziende comprabili; ma è anche vero che il piano di riduzione del debito, proprio attraverso la dismissione di impianti all’estero per un maggiore focalizzazione, già approvato, secondo le stime di consenso ridurrà quest’anno il rapporto di indebitamento al 2,7 rispetto alla media attesa per le aziende comparabili di 3 volte.

Ho un’altra spiegazione per lo sconto di Enel, causa ed effetto della cattiva performance del titolo da inizio 2022: a fine gennaio, la rielezione di Sergio Mattarella a presidente ha segnato di fatto la fine del governo Draghi, aprendo la strada alle elezioni, poi avvenute a settembre; e a fine febbraio la guerra in Ucraine ha creato una crisi energetica.

Questi due fatti, nell’anno che precedeva la tornata delle nomine, hanno indotto gli investitori a richiedere un premio per coprirsi dal rischio che le logiche della politica interferissero con la gestione e la governance delle partecipate; una richiesta più che giustificata viste le nomine di Enel.

Un caso emblematico di come un governo possa danneggiare se stesso e gli altri azionisti in una società a capitale pubblico-privato, rimuovendo per puri appetiti politici l’amministratore delegato che aveva creato una multinazionale, facendo ricco anche lo stato.

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