Il Financial Times ha recentemente pubblicato l’inchiesta annuale sulle mille imprese europee, inclusi Uk e i paesi dell’est, con il più elevato tasso di crescita.

Sia il periodo analizzato (2019-2022) sia il criterio (crescita dei ricavi) sono arbitrari, ma danno un’indicazione di facile lettura del tasso di imprenditorialità del continente: il periodo breve e la scelta dei ricavi come parametro privilegiano le startup e le imprese di recente costituzione che, partendo da zero o quasi, hanno necessariamente un tasso di crescita del fatturato più alto rispetto ad aziende già affermate, per le quali sarebbe più appropriato considerare la crescita degli utili.

Tutte le 1000 imprese hanno avuto una crescita media annua superiore al 36 per cento, vale a dire hanno più che triplicato la propria dimensione in tre anni, segno della grande vitalità e capacità imprenditoriale dell’Europa, troppo spesso sottovalutata nel confronto con Stati Uniti e Cina.

L’altro dato che emerge è la composizione settoriale delle nuove iniziative: quelle nell’industria tecnologica, software, e-commerce e fintech, sono appena un terzo. Potrebbe sembrare un dato negativo, sintomo del ritardo tecnologico europeo, ma è invece un segnale del fatto che è nei settori tradizionali che l’Europa mantiene un vantaggio comparato, e le nuove iniziative hanno una maggiore probabilità di creare valore innovando nei settori maturi, invece di competere nella tecnologia, dove abbiamo accumulato un ritardo incolmabile.

Un primato interessante

Ma il dato più interessante è che il primato delle società a maggior crescita spetta all’Italia: 304 nuove imprese su mille, davanti alla Germania, con 198; e 27 delle prime 100, contro le 19 tedesche. Non solo, Milano è la seconda città dopo Londra, e davanti a Parigi, per sede delle nuove iniziative imprenditoriali.

Ma se abbiamo così tanta capacità imprenditoriale, perché l’Italia ha poche grandi società private? Se si considera l’indice Stoxx delle maggiori 600 società quotate, rappresentativo della struttura delle aziende europee, appena il 4,6 per cento sono italiane; ma se si tolgono le banche, le assicurazioni e le imprese a partecipazione pubblica, ne rimangono appena 14 (Ferrari, Moncler, Prysmian, Tenaris, Recordati, Campari, Amplifon, Interpump, Cucinelli, Buzzi, Nexi, Reply, Tim e Diasorin), molte delle quali sono state fondate molto tempo fa.

E perché l’Italia ha il mercato dei capitali più asfittico d’Europa? La questione non ha una rilevanza soltanto finanziaria, ma è strettamente correlata al cruciale problema della produttività stagnante (approssimata dalla crescita del Pil pro capite) che da vent’anni ci vede all’ultimo posto fra i paesi Ocse.

Martin Wolf sul Financial Times ha sintetizzato bene quale sia pericolo della produttività in Europa: «Il perdurare della stagnazione della produttività causa gravi sfide politiche e sociali: imposte più elevate; minore qualità dei servizi pubblici; disagi collettivi; e rende la redistribuzione un gioco a somma zero dove i vari gruppi sociali cercano di avvantaggiarsi a danno degli altri».

L’aumento del reddito pro-capite è infatti l’unico modo per aumentare il benessere individuale e generare maggiori risorse per lo stato sociale. Spesso si invoca l’intervento pubblico per innescare il circolo virtuoso della produttività. Ma lo stato interviene prevalentemente in grandi gruppi nei settori maturi, nei servizi di pubblica utilità regolamentati e in aziende in difficoltà, per tutelare l’occupazione e preservare il controllo: investimenti che difficilmente favoriscono la produttività, che invece discende soprattutto dalla crescita delle aziende di successo e dalle nuove iniziative imprenditoriali.

Pochi investitori

Importante quindi capire come e perché la nostra capacità imprenditoriale venga dissipata senza che riesca a generare grandi aziende private.

La prima ragione è la mancanza di investitori in capitale di rischio, specie a lungo termine. In Italia il risparmio non manca, ma la quota dedicata ai fondi di private equity e venture capital, pur in forte crescita, è ancora risibile: secondo l’Aifi, l’associazione di categoria, erano di 70 miliardi gli investimenti di questo tipo a fine 2022 (al loro costo) rispetto allo stock di quasi 2.000 miliardi di azioni non quotate emesse dalle imprese italiane, segno che il controllo diretto da parte dell’imprenditore rimane la struttura dominante.

Dei 70 miliardi, 46 erano investimenti di fondi stranieri, più interessati ad acquisire attività esistenti (i buyout, ovvero l’acquisizione di rami di azienda e il delisting di società quotate per successive aggregazioni che hanno rappresentato il 69 per cento degli investimenti nel 2022), che agli investimenti nelle startup e nella crescita delle imprese. Dei cinque miliardi raccolti sul mercato dal private equity nel 2022, il 37 per cento è venuto da fondi pensioni, casse previdenziali e assicurazioni che sono investitori di lungo periodo.

Ma le risorse che dedicano a questo tipo di investimenti sono però ancora risibili (hanno attività per 1.200 miliardi) e dovrebbero aumentare: le assicurazioni però sono fortemente limitate dalla regolamentazione e, a differenza degli Usa dove vige un sistema previdenziale a capitalizzazione e un grande fondo pensione come CalPERS alloca fino al 40 per cento dei propri investimenti al private equity, in Italia gran parte della previdenza è pubblica, a ripartizione, finanziata da contributi e fiscalità generale.

Quanto al risparmio degli individui, contribuisce per il solo 11 per cento dei fondi raccolti del private equity (direttamente e tramite asset manager), la riprova della scarsa propensione all’investimento nel capitale di rischio e della forte preferenza per la liquidità degli italiani.

Cdp ha giocato un ruolo importante nel promuovere inizialmente l’industria del private equity ma non è realistico, anzi è controproducente, che un settore del mercato finanziario che ha nella redditività la sua prima ragione di esistere sia sostenuto da risorse pubbliche. Il primato italiano nelle nuove iniziative imprenditoriali di successo è dunque ancora più sorprendente.

L’exit strategy

Un altro limite alla crescita delle nuove iniziative imprenditoriali italiane è l’exit strategy che consente al fondo di liquidare il proprio investimento e all’imprenditore di raccogliere ulteriori risorse per la crescita.

Una strada è la quotazione: ma quella all’Euronext Growth (ex AIM per le nuove imprese) ha un’utilità limitata perché la dimensione del flottante è quasi sempre troppo limitata per attirare l’interesse dei grandi asset manager, indispensabile per far crescere il valore del titolo, con cui poi poter fare acquisizioni. E nei pochi casi di successo, l’imprenditore sacrifica la crescita per non diluire la sua quota di controllo.

L’alternativa per un’impresa di successo è la cessione a un grande gruppo: ma poiché di grandi gruppi italiani che facciano da aggregatori non ce ne sono al di fuori del settore bancario e assicurativo, o si rimane piccoli rispetto ai concorrenti nel mondo o si vende allo straniero.

Un esempio recente viene dal settore dei cosmetici, profumi e beni per la cura personale: l’italiana Beautynova è stata ceduta da un fondo straniero a un altro per 330 milioni, quando nello stesso settore il colosso Kering (quello di Gucci e Bottega Veneta) compera Creed per 3,5 miliardi, L’Oreal compra Aesop per 2,5 e un fondo quota la svizzera Galderma per 16.

Norme e contenzioso

Infine, c’è il problema delle norme e del contenzioso. Le relazioni contrattuali che tipicamente regolano diritti e obblighi dei vari attori nel venture capital americano, il sistema di maggior successo, trovano spesso difficile applicazione nel diritto societario italiano. Nella prassi si sono trovati modi per ottenere una sorta di equivalenza legale, che però non potrà mai essere altrettanto efficiente. E manca la rapidità e la certezza del diritto quando sorge un contenzioso, che incoraggia il ricorso ai tribunali e ai vari gradi di giudizio. Abbiamo una grande imprenditorialità, ma ci mancano le grandi imprese.

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