Il 1 luglio 1998, entrava in vigore in Testo unico della finanza (Tuf), risultato dei lavori della Commissione Draghi, allora direttore generale del Tesoro. Si era alla vigilia dell’avvio della moneta unica e si voleva dotare l’Italia di un assetto normativo moderno che promuovesse lo sviluppo di un efficiente mercato dei capitali.

Il Testo unico metteva ordine nella miriade di norme frutto della nostra schizofrenia legislativa; e i lavori della Commissione, trasparenti e aperti ai contributi da varie fonti, evitarono i soliti testi rabberciati e le negoziazioni opache.

Pochi titoli

Benché il Tuf fosse un ottima legge, per metodo e contenuti, bastano pochi dati e i casi recenti di Tod’s, Saras e Tim per capire che i suoi obiettivi non sono stati raggiunti. La verità è che non basta una legge per creare i mercati, anche se una buona norma è indispensabile al loro corretto funzionamento. L’Italia è infatti la maglia nera in Europa per capitalizzazione dei titoli quotati in rapporto al Pil: appena il 34 per cento, contro il 125 medio dei maggiori paesi europei (Germania, Olanda, Uk, Svizzera, Svezia, Francia, Spagna); peggio pure del Portogallo.

Il numero dei titoli quotati al mercato primario di Piazza Affari è stagnante da anni per via dei numerosi delisting. Ma ancora di più conta il flottante, ovvero il numero di azioni liberamente scambiabili, necessario per poter attrarre gli investimenti dei grandi fondi e investitori istituzionali.

Sotto questo aspetto, l’Euronext Growth (l’ex Aim dei piccoli titoli), con il maggior numero di quotazioni, contiene imprese dalle dimensioni troppo ridotte e con un flottante spesso risibile. E sono poche le imprese italiane che riescono a completare il percorso dall’Euronext Growth al raggiungimento di una dimensione rilevante per la maggior parte dei grandi investitori, specie esteri.

Dei seicento titoli europei che compongono l’indice Stoxx 600, su cui si concentrano gran parte dei capitali internazionali, appena 34 sono italiani (incluso EssilorLuxottica, ma escluso Stellantis) che contano per appena il 5 per cento della capitalizzazione dell’indice. Se poi si tolgono i titoli a partecipazione pubblica (Eni, Enel, Snam eccetera) e i titoli finanziari, ne rimangono solo 16.

Oltre che da scarsa numerosità e modesta dimensione media, i titoli italiani sono caratterizzati da una proprietà concentrata che ne riduce il flottante: appena il 43 per cento quello medio dei titoli con capitalizzazione superiore al miliardo (escludendo i finanziari).

È il portato della diffusa convinzione in Italia che la buona governance societaria richieda necessariamente il controllo di fatto di un’azionista rilevante.

Le responsabilità

Così, a 25 anni dal Tuf i dati sono questi: si può avere la legge migliore del mondo, ma se non ci sono titoli in cui i grandi capitali possano investire, non ci può essere un grande mercato dei capitali. Vale anche per il risparmio italiano che preferisce investire nelle borse estere perché trova migliori opportunità.

Tod’s e Saras dimostrano che una grande responsabilità è degli imprenditori. Tod’s fu fondata agli inizi del 900 ma si è quotata a novembre del 2000 per creare «una buona occasione per finanziare lo sviluppo [e] portare sul mercato l’unica azienda del settore lusso in Italia comparabile con due o tre grandi player internazionali» come dichiarava Diego Della Valle.

Le cose sono andate molto diversamente: valutata quasi 5 miliardi alla quotazione, dopo 24 anni il socio di controllo Della Valle la vuole ritirare dal mercato offrendone appena 1,6 miliardi.

Quanto ai grandi «player internazionali» con cui Tod’s voleva confrontarsi, Kering (che ha acquisito Gucci e Bottega Veneta) di miliardi oggi ne vale 51, Richemont (con Buccellati) 82, e Lvmh (con Bulgari, Loro Piana) 399. Dal punto di vista della crescita, la quotazione di Tod’s non è servita a niente. Allora, perché è stata fatta?

La data, novembre 2000, è rivelatrice: si era al picco della borsa al tempo della bolla di internet: la quotazione è servita al socio di maggioranza per massimizzare l’introito, sfruttando le valutazioni eccessive del mercato, senza perdere il controllo.

Le ragioni del delisting

E perché il delisting oggi? Perché il valore del titolo è depresso e quindi costa poco ritiralo dal mercato, così che Della Valle non dovrà condividere con il mercato il maggior valore derivante dalla ristrutturazione o l’eventuale premio di controllo nel caso di una successiva cessione a Lvmh che, direttamente e indirettamente tramite un fondo, finanzia il delisting arrivando a detenere il 46 per cento della società.

Di fatto si usa la Borsa opportunisticamente. È legittimo e diffuso, anche se in special modo da noi. Ma con l’opportunismo non si creano né i grandi gruppi, né si sviluppa il mercato dei capitali.

Saras, dei Moratti, è una storia analoga. Società costituita nel 1962, si quota nel maggio del 2006 permettendo ai Moratti di far cassa sfruttando un altro picco della borsa; in quel caso esagerando perché il titolo crolla del 25 per cento dopo la quotazione, con strascichi di cause, accuse e polemiche. La quotazione, che valutava il gruppo 1,5 miliardi non serve a crescere e fare acquisizioni; e ora c’è il delisting allo stesso valore di 18 anni fa.

Il ruolo dello stato

La responsabilità del mancato sviluppo del mercato dei capitali è anche dello stato. Per cominciare, in un paese dalla bassa propensione a investire nel capitale di rischio, sussidia con un’aliquota ipercompetitiva gli investimenti in titoli di stato. Ma è la continua espansione dello stato azionista (è il primo investitore in Borsa, caso unico tra i paesi sviluppati) e la sua interferenza nel mercato dei capitali che ne pregiudica lo sviluppo, come esemplifica il caso della Rete Unica.

L’obiettivo dichiarato è creare un monopolio a controllo pubblico; ma è un fondo privato, Kkr, che fa l’offerta a Tim, avendone già un pezzo tramite FiberCop. Quale dunque sia la strategia del governo per raggiungere il suo obiettivo della Rete Unica rimane un mistero.

Vedo solo confusione e conflitti di interessi. Lo stato prima dichiara di affiancare Kkr nell’acquisto della rete di Tim, per poi virare su un suo pezzo con un’offerta per Sparkle, anche se non ha senso come società a se stante; poi manda avanti il fondo F2i, formalmente privato ma con cui ci sono «dialoghi costruttivi» grazie all’azionariato per il 40 per cento formato da Istituti pubblici e da Fondazioni che con lo stato sono soci in Cdp; che a sua volta è venditrice in quanto socia di Tim, ma anche di OpenFiber che dovrà fondersi con la Rete di Tim se il governo vuole la Rete Unica; e che insieme a Tim è il destinatario di tutti i fondi del Pnrr per la digitalizzazione, assegnati sempre dal governo.

Se anche si riuscisse a fondere tutti questi pezzi per creare la Rete Unica, con Kkr che si diluisce quotando una parte del suo investimento, e trasferisce il controllo allo stato, rimane il problema di come l società potrà sostenere l’enorme fardello del debito congiunto di OpenFiber e quello scaricato da Tim, oltre agli esuberi che si verrebbero a creare.

Né come possa sopravvivere Tim, senza rete, in un mercato concorrenziale come quello italiano che non regge gli attuali cinque operatori. L’unico risultato è la sparizione dalla Borsa di una ex grande società privata come Telecom Italia, e un’ulteriore espansione dello stato. Altro segno del declino di Piazza Affari.

Per rilanciarlo il governo ha licenziato il ddl Capitali. La nuova legge blinda ancora di più il controllo delle imprese e, che si condivida o meno l’obiettivo della norma, riforma in un modo irrealizzabile la nomina degli amministratori nel caso di liste del consiglio uscente (e riguarda i soli casi di Mediobanca, Generali e Unicredit).

Impensabile che riesca a dare un qualche impulso alla Borsa. Il ddl capitali contiene anche la delega per riformare il Tuf. Ma se la visione che guiderà questa riforma sarà analoga a quella usata per il decreto, l’unico risultato sarà di rendere il nostro mercato ancora più ostico agli investitori.

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