Come previsto la presidenza Trump è iniziata con i fuochi d’artificio, con una raffica di ordini esecutivi, tra cui alcuni di dubbia costituzionalità, volti a dare l’impressione che sia iniziata una nuova era.

Due settimane fa il Diario Europeo si è occupato delle politiche commerciali; ma le scelte cui deve fare fronte l’Europa sono ben più complesse. Il vecchio continente non sembra aver ancora delineato una strategia coerente per rilanciare la propria economia nella corsa alla transizione ecologica e digitale. Mentre molti governi sembrano mettere tutte le energie nella riduzione del debito, il rapporto Draghi uscito a settembre sottolinea giustamente un priorità ben diversa: uscire dalla stagnazione cronica della produttività per recuperare il divario di crescita sempre più evidente tra l’Unione europea, gli USA e la Cina.

È difficile dissentire dall’ex presidente della Bce quando afferma che per l’UE si tratta dell’ultimo treno, e che senza un cambiamento radicale di strategia sarà destinata ad essere spettatore della transizione ecologica e digitale.

La concorrenza

A fronte di questo quadro impietoso i governi europei e la Commissione sembrano ancora non avere una bussola. In primo luogo, in molti paesi non si è ancora fatta strada la convinzione che senza una strategia comune sarà impossibile mettere in piedi una politica industriale efficace; è fortissima la sensazione che si proceda sostanzialmente in ordine sparso. In secondo luogo, il dibattito europeo di queste settimane sembra girare intorno a una concezione delle politiche industriali obsoleta.

Ne è un esempio un articolo del Financial Times della settimana scorsa che riferisce delle discussioni in corso in ambienti europei sulla normativa che regola le fusioni e acquisizioni. Friedrich Merz, presidente del partito conservatore tedesco e probabile prossimo cancelliere, ha recentemente auspicato una riforma delle politiche europee per la concorrenza, in modo da consentire la nascita di grandi conglomerati industriali, i campioni europei.

Secondo il giornale britannico, lo staff della Commissione sta per la prima volta da decenni valutando la possibilità di consentire fusioni che accrescano le dimensioni di impresa consentendo di ridurre i costi e competere meglio con i rivali internazionali; questo sarebbe un cambiamento netto di approccio rispetto al passato, quando il solo criterio seguito dalla Commissione nell’autorizzare o meno le fusioni era la protezione dei consumatori.

Che sia chiaro: il tema della capacità delle imprese europee di raggiungere le dimensioni necessarie a competere con i grandi conglomerati dei nostri concorrenti è importante; ed è certamente lecito interrogarsi su costi e benefici di norme che limitano la dimensione d’impresa (spesso troppo piccola in Europa. Si pensi al nostro paese). Tuttavia colpisce, nel dibattito in corso a Bruxelles, lo scarso respiro della discussione sulla politica industriale.

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Lo Stato minimo

Con il declino dell’economia keynesiana si è affermato negli anni Ottanta un paradigma di Stato minimo incentrato sull’efficienza dei mercati, che ha costretto il dibattito sulla politica industriale in una gabbia teorica che affidava quasi esclusivamente ai mercati il compito di innovare. La politica economica attiva è stata bandita sia nella funzione keynesiana di regolazione del ciclo che come strumento per orientare e favorire la crescita nel lungo periodo.

In quegli anni si è imposto un modello che lega le mani a governi e banche centrali con regole monetarie e di bilancio e depotenzia la politica industriale sostituendola con quella della concorrenza; una politica della concorrenza che ambisce a “livellare il terreno di gioco”, impedendo l’emergere di grandi monopoli e l’utilizzo degli aiuti di Stato.

Periodicamente, poi, di fronte alle decisioni della Commissione di impedire fusioni industriali (nel passato recente hanno fatto scalpore quella Thyssenkrupp-Tata Steel nel 2018 e quella Siemens-Alstom nel 2019), è riemersa la tesi per cui fosse a volte necessario sacrificare il benessere del consumatore, deviando dal paradigma della concorrenza, ma esclusivamente in modo temporaneo e al servizio della competitività.

Di fatto, la mano pubblica, in Europa, ha rinunciato a quel ruolo di Stato imprenditore che era stato uno dei motori del boom economico del secondo dopoguerra (si pensi agli anni della programmazione in Italia). Uno Stato capace non solo di sostenere i mercati quando questi si coordinano su equilibri non ottimali, ma anche di agire da volano per la crescita di lungo periodo, creando nuovi mercati.

La trasformazione

La politica industriale è particolarmente rilevante nei periodi di trasformazione strutturale, plasmando l'economia ben oltre il semplice sostegno ai mercati. Lo “Stato Imprenditore” delineato dai lavori di Mariana Mazzucato ha caratteristiche diverse da quelle delle imprese private. In primo luogo, non mira a massimizzare il profitto, ma il benessere sociale; inoltre, ha un orizzonte temporale indefinito (lo stato non "muore") e può impegnarsi in investimenti a lunghissimo termine; infine, ha capacità di indebitamento superiori a quelle degli operatori privati.

È per questo che lo Stato imprenditore non si limita a ovviare ai fallimenti di mercato ma può, ed è altrettanto importante, favorire il progresso economico e sociale esplorando possibilità produttive inaccessibili ai mercati. Mazzucato fa l’esempio della corsa a portare l’uomo sulla luna, che ha generato a cascata un’infinità di innovazioni (spesso portate avanti da attori privati) che mai sarebbero perseguite da imprenditori preoccupati solo dalla massimizzazione dei profitti.

Lo Stato, che deve essere certo facilitatore dei mercati ma anche innovatore, regolatore, imprenditore, non può quindi limitarsi a garantire le condizioni per la concorrenza, né a favorire grandi oligopoli per competere sui mercati internazionali.

La “nuova” politica industriale, che di fatto assomiglia molto a quella del secondo dopoguerra spazzata via dalla rivoluzione conservatrice, è una politica strutturale che fa ricorso a una moltitudine di strumenti.

Gli autori dei capitoli del recente rapporto sull’investimento pubblico per la trasformazione industriale, da me coordinato con Floriana Cerniglia, sottolineano come la politica industriale al servizio dell’innovazione debba puntare a rimuovere i colli di bottiglia che ostacolano lo sviluppo dei settori considerati strategici (per motivi economici o geopolitici) e che gli strumenti necessari varino a seconda degli obiettivi: investimenti pubblici, sussidi, regolamentazione, commesse che garantiscano un flusso di domanda costante a settori nascenti e ancora fragili; ma anche misure meno ortodosse come la protezione mirata dei mercati domestici, la tassazione o addirittura la politica monetaria e finanziaria.

È impressionante come la ricchezza del dibattito che emerge dai contenuti del volume faccia fatica ad imporsi a Bruxelles e nelle capitali europee. Stiamo lasciando partire l’ultimo treno?

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