«Ho saputo che state progettando un Instagram per minori di tredici anni. Mr Zuckerberg qual è il beneficio per un minore di stare connesso?. Lei crede che sia positivo per i suoi figli? Cosa fa con i suoi figli? Mi risponda».

Le domande rivolte ieri sera agli amministratori delegati di Facebook, Mark Zuckerberg, di Google Sundar Pichai e di Twitter Jack Dorsey, chiamati a testimoniare sul ruolo della rete e dei social nella diffusione di disinformazione di fronte a due sotto commissioni della Camera dei deputati americana, sono state martellanti.

Una gogna virtuale con i tre collegati a distanza – dalla cucina con alle spalle una mensola colma di piatti, Dorsey l’eccentrico capo di Twitter, vicino a uno scaffale con libri e una parete bianca, l’ermetico Pichai, e tra una lampada e una pianta anonime, il deciso Mark Zuckerberg.

I deputati chiedevano conto di un modello di business che monetizza le connessioni per organizzare la sommossa di Capitol Hill come la dipendenza dalla tecnologia degli adolescenti più fragili. Ognuno portando la sua storia: chi suicidi di ragazzi, chi odio razziale. Fino a quando il repubblicano Frank Pallone non arriva al punto fondamentale, strutturale di sistema: «Queste aziende stanno diffondendo contenuti non corretti perché è redditizio farlo». Le risposte sono state poche.

Zuckerberg abituato ormai a questo tipo di confronti ha evitato le domande scomode e ha rivendicato le posizioni comode, note: «Connettersi e social media non ha lo stesso effetto per tutti. Disconnettersi non è necessariamente positivo», ha detto.

Alla agguerrita deputata repubblicana Cathy McMorris che poneva domande sull’«epidemia di depressione» tra i ragazzi provocata dai meccanismi di dipendenza su cui si fondano i social, ha ripetuto che «stare connessi comporta benefici, accedere a tanti contenuti è ampiamente positivo». I suoi figli? Non usano quei servizi. YouTube? Guarda «video educativi». Ed essendo piccoli lui, nel caso, supervisiona. A chi chiedeva se il suo algoritmo avesse l’obiettivo di far rimanere connessi il più possibile, ha balbettato un «non è così semplice», portando il deputato di turno ad esclamare sto perdendo il mio tempo. Ma lo spettacolo valeva la pena di essere messo in scena perché Zuckerberg arrivava al Congresso con in tasca una parziale soluzione ai suoi problemi, una idea di riforma della sezione 230 del Decency Act, quella che offre l’immunità ai social network e alle piattaforme digitali, che per lui poteva essere un buon compromesso.

La riforma della sezione 230 è molto discussa perché finora l’immunità era considerata garanzia per la libertà di espressione e Zuckerberg, il principale imputato tra i tre di offrire strumenti di diffusione di disinformazione, arrivava già con una concessione.

Il suo intervento è cominciato patriotticamente, con le condoglianze per i morti di Capitol Hill: «Voglio iniziare estendo le mie condoglianze per gli ufficiali di polizia che hanno perso le loro vite nelle sommossa del sei gennaio e il mio apprezzamento per quei tanti che hanno messo se stessi a rischio per proteggervi».

Ma la parte importante era un’altra, quella in cui suggeriva al Congresso come regolamentare il trattamento di contenuti da parte di società come la sua: «Riteniamo che il Congresso dovrebbe prendere in considerazione l'idea di dare l’immunità agli intermediari delle piattaforme per alcuni tipi di contenuti illegali subordinati alla capacità delle aziende di soddisfare le migliori pratiche a combattere la diffusione di questo contenuto». Le piattaforme «dovrebbero dimostrare di disporre di sistemi per identificare i contenuti illegali e rimuoverli».

Secondo la ricetta snocciolata dall’amministratore delegato di Facebook «le piattaforme non dovrebbero essere ritenute responsabili se un particolare contenuto sfugge al loro monitoraggio». «L’alternativa sarebbe poco pratica per piattaforme con miliardi di post al giorno, ma dovrebbe essere richiesto loro di messo in pratica sistemi adeguati per affrontare i contenuti illegali». Per ovviare alla evidente disproporzione tra i mezzi della sua società e di quelli di piccole start up che questo sistema creerebbe, Zuckerberg ha spiegato che le richieste devono essere commisurate alle dimensioni della piattaforma e impostate da «una parte terza».

La trasparenza che non c’è

Zuckerberg ha preso in parte ispirazione dalla nuova legge in discussione nell’Ue sui servizi digitali, prevedendo per esempio che ci possa essere un tempo per i reclami e per i ricorsi. Ma ha eliminato per esempio gli obblighi di trasparenza sugli algoritmi, di cui Zuckerberg non ha nemmeno parlato durante il suo intervento al contrario per esempio dell’amministratore di Twitter. E lo stesso si può dire sulla trasparenza richiesta dall’Ue sulle inserzioni pubblicitarie e altri elementi più sostanziali. Ma in ogni caso l’Ue aveva utilizzato un approccio regolatorio che la politica americana sembrava voler superare: negli Stati Uniti l’indagine anti trust della Camera aveva messo direttamente in discussione il modello di business di queste aziende incentrato sullo sfruttamento di dati e privacy: una impostazione più radicale che nasceva dall’analisidi un milione di documenti e non da un confronto come quello di ieri.

Nilay Paterl, direttore di The Verge, nota rivista di tecnologia americana, ha commentato: «Dopo una serie di sostanziali audizioni, quella di oggi sulla riforma della sezione 230 è un classico cercare di creare contenuti da postare dopo». I deputati potranno postare le loro domande, gli amministratori delegati accetteranno di vedere diventare virali le loro non risposte: guadagnano anche da quelle.

 

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