l consiglio di amministrazione di Tim riunito ieri in seduta straordinaria dopo l’annuncio da parte del fondo di investimento americano Kkr dell’interesse per una offerta pubblica di acquisto del 100 per cento della società di telecomunicazioni si è concluso dopo circa tre ore.

La nota diffusa dalla società precisa che si tratta di una manifestazione di interesse «non vincolante e indicativa», ma indica anche che il prezzo, sempre «meramente indicativo», a cui Kkr sarebbe disposto a comprare le azioni di Tim: 0,505 euro, con un “premio” rispetto agli attuali valori di Borsa di circa 15 centesimi ad azione.

Si tratta di una valorizzazione di oltre il 60 per cento rispetto al valore di Tim. Tuttavia il valore è meno della metà del prezzo che il gruppo Vivendi di Vincent Bolloré, attuale maggiore azionista e molto critico nei confronti dell’attuale gestione, ha dovuto sborsare a suo tempo, cioè 1,071 euro. Nel bilancio di fine anno, Vivendi aveva contabilizzato la partecipazione a 3,179 miliardi, contro un valore di mercato al 31 dicembre di 1,374 miliardi, ma allora il titolo era quotato più di oggi a 0,377 per azione.

L’offerta del fondo americano è vincolata al raggiungimento della soglia di adesione del 51 per cento sia per le azioni ordinarie sia per quelle di risparmio. Ed è «amichevole», cioè Kkr vuole il gradimento da parte della società, il supporto del management e dei soggetti istituzionali.

Cioè il governo che sulle infrastrutture strategiche – e la rete di Tim è quanto di più strategico possa esserci – può esercitare il golden power, e quindi ha il potere tra gli altri di bloccare possibili acquisizioni.

Kkr, che è anche il maggiore azionista del gruppo editoriale tedesco Axel Springer, detiene già il 37,5 per cento di FiberCop, la società costituita da Tim con Fastweb e che gestisce la rete secondaria di Tim, quella che arriva alle case per intenderci.

Per l’operazione con Tim, Kkr ha avuto due super consulenti: l’ex numero uno di Cassa depositi e prestiti, attualmente azionista di Tim al 10 per cento, Claudio Costamagna e dall’ex vicepresidente di Amazon e responsabile dell’agenda digitale di Matteo Renzi e Paolo Gentiloni, Diego Piacentini.

Le mosse del governo

AP Photo/Michel Euler

Ora Palazzo Chigi avrebbe già vagliato l’ipotesi di creare un super comitato per valutare l’esercizio del golden power, che includerebbe i ministri Vittorio Colao e Giancarlo Giorgetti, Daniele Franco e il suo capo di gabinetto al ministero dell’economia, Giuseppe Chiné, il sottosegretario con delega ai servizi segreti Franco Gabrielli, e anche i più diretti collaboratori del premier, il sottosegretario alla presidenza del consiglio Roberto Garofoli e l’economista Francesco Giavazzi.

Nella giornata di oggi, altri due fondi Cvc e Advent, hanno confermato il loro interesse nella società di tlc, smentendo tuttavia una operazione di raccordo con il gruppo Vivendi.

Non a caso, nel pomeriggio, indiscrezioni raccolte dalla agenzia di stampa Adnkronos e poi rapidamente smentite da Tim dicevano che sul tavolo c’era anche l’ipotesi di un ritiro delle deleghe all’amministratore delegato. La gestione del manager, considerati i risultati di bilancio e i risultati in borsa, era stata criticata ufficialmente da ben undici consiglieri nelle scorse settimane.

Il prossimo consiglio

La società aveva già fissato un consiglio di amministrazione il 26 novembre destinato a decidere delle sorti di Gubitosi e che ora dovrà valutare anche i movimenti sulla società. Su Gubitosi oltre a una strategia confusa e accordi che non hanno dato i risultati sperati, come quello con Dazn, pesa soprattutto la scommessa sulla rete unica.  L’ex premier Conte lo aveva definito «progetto politico di lungo termine», in sfregio alle condizioni con cui veniva posto il progetto.

La presenza in posizione di azionista di maggioranza – come previsto dal memorandum iniziale o anche di semplice rilevanza – di un operatore privato che opera sia nel mercato della rete primaria sia in quello delle offerte al consumatore come Tim - tuttavia, lo ha sempre reso impossibile da accettare da parte dell’Antitrust europeo.

La Commissione europea, infatti, ha chiesto di togliere qualsiasi riferimento all’accordo quando qualche settimana fa ha approvato l’acquisizione da parte di Cdp della quota di OpenFiber detenuta dal fondo Macquarie. Un esito previsto e prevedibile, ma che per un periodo la politica italiana ha fatto finta di non vedere.

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