Si può ancora parlare di tasse con serietà e competenza, senza cedere alla tentazione di farne un tema da perenne campagna elettorale? Un po’ a sorpresa, la risposta viene dall’aspetto meno noto del pensiero di Giacomo Matteotti.

Di Matteotti, a cento anni dal rapimento e dal brutale assassinio per mano fascista, si sa quasi tutto. Delle lotte per i braccianti del suo Polesine. Del coraggio nel denunciare le violenze inaudite dello squadrismo in camicia nera. Della grande competenza, alimentata da uno studio incessante. Della precisione tagliente nei dibattiti alla Camera. Dell’audacia nell’irridere le sparate propagandistiche del dittatore. Della fiducia incrollabile nei principi dello Stato di diritto e nei fondamenti della democrazia parlamentare.

Sostanzialmente sconosciuta è, invece, la dedizione di Matteotti alla questione tributaria, che pure è stata centrale nella sua azione politica, basata sulla funzione redistributiva dell’imposizione a fini di giustizia sociale. Sono in pochi a saperlo, eppure Matteotti si è dedicato intensamente ad una materia che anche al suo tempo era oggetto di iniziative demagogiche e frammentarie, alle quali lui ha contrapposto proposte rigorose e moderne. Riscoprirle è come ricevere un’eredità imprevista: un metodo per quelle riforme fiscali di cui si sente un urgente bisogno anche oggi.

Matteotti dichiara subito la sua avversione per i programmi vaghi, le promesse vane. È durissimo con chi «vuol far credere che si faranno grandi cose, mentre tutto si riduce a ben poca cosa». Diffida di tutti i populismi: non dice che le imposte sono «bellissime» ma, a vent'anni, scrive che è dannoso incitare all'odio contro le tasse perché «dobbiamo limitarci a dimostrare che sono mal distribuite, ma diffondere nel tempo stesso la persuasione che sono assolutamente necessarie».

Matteotti pratica rigore intransigente, ben sapendo quanto gli costerà la sua scelta di campo. È competente e meticoloso, ma non è certo un tecnocrate, tutt’altro. Diffida delle alte burocrazie e del loro potere invisibile, così come dei governanti senza visione né programmi, che nominano commissioni pletoriche i cui consigli non ascolteranno mai. Il suo approccio alla vicenda fiscale è cristallino e lo dichiara apertamente: punta ad ottenere equità, uguaglianza, parità di trattamento. Pretende giustizia sociale. Sono i capisaldi di un programma politico rivolto al futuro, gli elementi costitutivi del suo progetto riformatore, concretamente ancorato alle esigenze della società del suo tempo.

Matteotti fa riferimento, quasi sempre nei discorsi cruciali, al “sistema tributario”. Una scelta linguistica che è una scelta di metodo e che si fa scelta politica: il fisco deve o, quanto meno, dovrebbe, assurgere a “sistema”, essere un complesso organico, dove ciascun elemento trova connessione con gli altri, con l’insieme e con il contesto.

Nulla di più attuale anche oggi, quando si propagandano per riforme epocali quelli che invece rischiano di essere solo provvedimenti estemporanei e disordinati. Ogni sua singola proposta è una tessera di un grande mosaico in costruzione che trova collocazione, metodicamente, in un sistema organico e coerente. Matteotti costruisce così trama e ordito del sistema fiscale che ha in mente, con il quale intende attuare un nuovo modello di giustizia collettiva, destinato ad imprimere una svolta ad una società in profonda evoluzione come quella del primo dopoguerra.

Uguaglianza sostanziale

A Matteotti non sarà consentito di vedere la Costituzione repubblicana, tuttavia la norma fondamentale in materia tributaria, l’art. 53, esprimerà la sua intuizione di un sistema tributario informato a progressività, al quale giunge nella sua ricerca della piena attuazione del principio di uguaglianza, declinato nell’accezione più forte, come principio di uguaglianza sostanziale. Lo stesso vale per il principio di concorrenza alle spese pubbliche che Matteotti coglie, collocando il dovere di contribuzione al centro dell’esistenza stessa dello Stato e intuendone la radice nel principio di solidarietà.

Centrale nella proposta matteottiana è l'imposta generale progressiva sul reddito. Si tratta di un tema nevralgico che segna anche il nostro presente perché, se al tempo non esisteva ancora, oggi la progressività si è in gran parte smarrita e la nostra Irpef è letteralmente dilaniata da tassazioni sostitutive, regimi forfetari, una miriade di trattamenti differenziati, innumerevoli sperequazioni. Matteotti critica severamente anche gli accordi personalizzati sulle imposte sul reddito (con una certa semplificazione, quelli che oggi chiameremmo “concordato fiscale”) che l’amministrazione fiscale del tempo rincorreva anche per l’incapacità di perseguire i veri evasori. Per Matteotti sono causa di ulteriori effetti incontrollabili di distribuzione ineguale del carico fiscale.

Difficile non essere d’accordo con Matteotti, per il quale solo una razionalizzazione del sistema con un prelievo unitario centrato sull’imposizione personale progressiva assicura vera equità, poiché è in grado colpire tutta la ricchezza dell’individuo.

Semplificare il sistema

Secondo Matteotti, tuttavia, il prelievo progressivo non deve crescere indefinitamente fino ad assorbire tutto il reddito: occorre ribassare, semplificare e unificare le aliquote di imposta perché oltre un certo limite il contribuente potrebbe sentire l’ostilità del prelievo e cercare di sottrarsi al dovere fiscale. È una visione modernissima, che lo spinge a cogliere nella semplificazione dei meccanismi impositivi una via per indurre il contribuente a pagare il dovuto.

Nella legge come strumento di garanzia in senso formale e sostanziale, Matteotti trova l’elemento che arricchisce in modo decisivo la sua azione in campo tributario. Legge vuol dire rappresentanza, l’irrinunciabile legame con il Parlamento, espressione di quel mondo reale nel quale è necessario che ciascun tributo trovi la propria funzione. Il culmine dell’impegno di Matteotti nella materia fiscale sarà l’opposizione alla legge sui “pieni poteri”, nel momento più drammatico dell’insediamento del regime fascista nel cuore delle istituzioni democratiche.

È la prima legge portata in Parlamento dal futuro dittatore ed è una legge per la riforma fiscale. Matteotti si scaglierà contro di essa nel segno altissimo della difesa delle regole democratiche e dello Stato di diritto al cospetto di avversari che pur di metterlo a tacere non smetteranno di tormentarlo con tutti i mezzi e con la violenza, sino al tragico epilogo.

Non occorre certamente attendere gli ultimi mesi della sua vita per rendersi conto della “visione costituzionale” di Matteotti, perché la sua tensione verso le garanzie dello Stato di diritto è costante, a partire dall’epoca giovanile.

Tuttavia, nel momento della conquista del potere da parte dei fascisti diventa più nitida e vibrante, come le sue parole: «chi non voglia distrutti o diminuiti i diritti e le funzioni del Parlamento, chi tiene alla libertà individuale, non può abdicare nelle mani di un Governo il sistema tributario, che investe i rapporti più sostanziali tra i cittadini e lo Stato. Chi abbia ferma coscienza dei propri diritti e doveri di rappresentante della nazione che lavora e produce, non può rendersi complice della concessione dei pieni poteri, la quale segnerebbe nella storia nazionale il precedente più pericoloso».

Le parole di Matteotti, purtroppo, non basteranno a salvare il Parlamento che rimarrà, per vent’anni e più, solo uno “scenario dipinto”, come disse Turati nel corso del dibattito in Aula. Seppur vane in quel momento, produrranno tuttavia un risultato straordinario. Sopravviveranno per oltre un secolo e torneranno attuali ogni volta che, nell’esercizio della potestà normativa tributaria, si assiste a invasioni di campo tra poteri dello Stato e il Parlamento rinuncia ad esercitare le sue prerogative.

© Riproduzione riservata