Come tutto lascia prevedere, Giorgia Meloni sarà la prima donna a diventare presidente del Consiglio. Ma non è stata la prima donna leader di un partito italiano, come ha detto invece in campagna elettorale, l’hanno preceduta addirittura in cinque: Adelaide Aglietta ed Emma Bonino per i radicali (nelle loro alterne denominazioni), Grazia Francescato per i Verdi (due volte), Flavia D’Angeli per Sinistra critica (minuscolo partito nato nel 2008 da una scissione di Rifondazione comunista) e mettiamoci pure Rosa Russo Iervolino, che nel 1994 traghettò il Partito popolare italiano (l’ex Dc) tra le dimissioni di Mino Martinazzoli e l’avvento di Rocco Buttiglione.

Differenze di leadership

La leadership di Meloni è però tangibilmente diversa. E non solo per ragioni temporali, visto che è presidente di Fratelli d’Italia (di cui è stata cofondatrice nel 2012) ormai da otto anni. Qui siamo di fronte al primo partito d’Italia, che si appresta a prendere le redini del governo del paese dopo aver ampiamente “svuotato” elettoralmente gli altri partiti della coalizione di centrodestra. Quindi, una leader alle cui decisioni gli alleati Matteo Salvini e Silvio Berlusconi (a modo loro entrambi “machisti”, sia pur con caratteristiche diverse tra loro) non potranno opporre particolare resistenza.

C’è però anche un altro elemento: Meloni guida un partito di destra, anzi, il più a destra dello scacchiere politico italiano, un’area culturale in cui tradizionalmente il maschilismo è da sempre ingrediente sostanziale. E questo è un segno dei tempi: come è stato possibile che qui, ora, si sia creata una leadership così forte, così caratterizzata, invece che nel centrosinistra in cui – almeno a parole – la pari opportunità tra i sessi è da sempre imbracciata come elemento di programma?

Già la risposta a questa domanda, a ciò che resta del Pd potrebbe dare una prima, parzialissima misura della disillusione del suo elettorato, plasticamente rappresentato dal voto del 25 settembre. E magari anche, soprattutto, un pezzo della chiave che serve per leggerne il significato: che ha a che fare con un paese sempre più dimentico della propria storia, con generazioni che si succedono e alle quali il passato della nazione risulta giocoforza estraneo, e rivolto invece al “qui e ora”. Cioè a una politica – giusto o sbagliato che sia – fatta non di ideologie bensì di partiti personali, di comunicazione politica orizzontale, di una grammatica nuova ma che ogni giorno già diventa vecchia. Oltre che di bollette sempre più vertiginose.

Una politica, in altre parole, in cui il peso del simbolico non ha più cittadinanza. Basti l’esempio del collegio uninominale per il Senato di Sesto San Giovanni, l’ex “Stalingrado d’Italia”, in cui Isabella Rauti, ex moglie di Gianni Alemanno ma soprattutto figlia di Pino fondatore di Ordine nuovo (nonché segretario del Movimento sociale italiano e fondatore della Fiamma tricolore), ha strapazzato il candidato del centrosinistra Emanuele Fiano, pure lui figlio “eccellente”: di Nedo, sopravvissuto al campo di sterminio di Auschwitz.

E d’altra parte, prima ancora che il 25 settembre si votasse, Giorgia Meloni aveva già deciso di fare dell’hotel Parco dei prìncipi a Roma la cornice della notte post elettorale di Fratelli d’Italia: c’è infatti ancora qualcuno che ricorda che proprio lì, nel 1965, si tenne il controverso convegno sulla guerra rivoluzionaria (con Pino Rauti tra i relatori, ma pure Guido Giannettini) che, per unanime interpretazione storiografica, segnò l’avvio della cosiddetta strategia della tensione?

Maschilismo mussoliniano

Benché sempre meno magistra vitae, la storia è però lì, per chi vuole accostarvisi e ascoltarla. E nel caso del maschilismo nazionale indica senza possibilità di equivoci dove esso ha da sempre piantate le proprie radici. Lo ricorda Mirella Serri in un libro appena uscito per Longanesi, Mussolini ha fatto tanto per donne! (così, con tanto di ironico punto esclamativo), sottotitolo appunto Le radici fasciste del maschilismo italiano.

Docente di letteratura moderna e contemporanea, Serri da anni scrive di fascismo e resistenza in volumi di grande divulgazione, l’ultimo dei quali ad esempio sulla controversa figura di Claretta Petacci. Qui il filo del racconto è per certi versi analogo, muovendosi attraverso la biografia anche sentimentale del duce fin da prima dell’avvento del regime. Tanto che l’inizio del libro, folgorante, rievoca l’incontro a Milano tra l’allora direttore dell’Avanti! e la “signora del socialismo” Anna Kuliscioff, compagna di quel Filippo Turati punto di riferimento del gradualismo e del riformismo in seno al Psi di allora che Mussolini aveva appena sconfitto al congresso di Reggio Emilia del luglio 1912.

Senza ripercorrere qui tutte le complicate vicende del socialismo italiano di oltre un secolo fa, e andando dritti al punto, conta invece dove Serri porta a ritroso il lettore. Cioè a un altro incontro di una decina d’anni precedente sempre tra Mussolini e un’altra donna importante della nostra storia: Ernesta Bittanti, giornalista, scrittrice, docente e moglie di Cesare Battisti, il patriota trentino, sul cui giornale Il popolo a Trento Mussolini iniziò la propria folgorante carriera di giornalista. E qui il passaggio va citato integralmente.

«Destinato a diventare sostenitore del matrimonio indissolubile e fautore della pena capitale, il futuro Duce offrì i suoi servigi alla testata divorzista, anche se non ne condivideva le idee. Povero in canna, accettava qualsiasi impiego ed era felice di sbafare un pasto sostanzioso dagli amici. A tavola, davanti a uno stinco di maiale ben rosolato, Ernesta a bruciapelo gli pose la domanda esortandolo a parlare una volta tanto francamente: da socialista, come vedeva la presenza delle donne alle urne?».

Prosegue Serri: «Il Psi era diviso e prendere posizione per Benito non era facile. All’epoca si lasciava ancora andare ai piaceri della bottiglia e una volta tanto fu sincero con Ernesta. Per prima cosa spiegò che non tifava affatto per il suffragio universale. Il voto avrebbe indebolito le forze proletarie, le avrebbe rese più malleabili e meno adatte a essere convogliate verso la rivoluzione. Dal momento che non voleva gli uomini alle urne, figurarsi se aveva intenzione di portarci le donne. Era contrario. Se fosse dipeso da lui, il voto alle donne non lo avrebbe mai e poi mai concesso. Questa sua convinzione, da non divulgare pubblicamente, sancì così un patto speciale che lo unì ad Ernesta».

In marcia contro le donne

Visto che ci si sta avvicinando al centenario della marcia su Roma (27-31 ottobre 1922), nell’introduzione al libro Serri scrive forte e chiaro che Mussolini capeggiò una doppia marcia: «Quella per la presa del potere, per l’abbattimento della democrazia, e quella contro le donne», attraverso l’inasprimento del diritto di famiglia («mettendo le donne in uno stato di totale sudditanza di fonte al marito») e il Codice Rocco, con l’articolo 587 che prevedeva la riduzione di un terzo della pena per chiunque avesse ucciso la moglie, la figlia o la sorella per difendere l’onore suo o della famiglia. Mentre la violenza carnale era considerata un delitto contro il costume e la moralità pubblica: abominio giuridico, è sempre bene ricordarlo, che il Parlamento italiano ha abolito solo nel 1996.

Quale fosse il portato del ventennio alla nascita della Repubblica, è dimostrato dal dibatto che si svolse il 14 novembre 1947 nell’Assemblea costituente a proposito del Titolo IV, “La magistratura”. E così si assistette a un futuro presidente del Consiglio e della Repubblica, il giurista e principe del foro Giovanni Leone, che si oppose all’accesso delle donne alla carriera di magistrato «dal momento che sono così emotive».

Il repubblicano Giovanni Conti, antifascista intransigente, pure sostenne che sarebbe stato imprudente aprire tribunali e procure alle donne «dal momento che, ci sia consentito il dirlo, in certi periodi sono assolutamente intrattabili». Mentre per il liberale Alfonso Rubilli, avvocato che dopo l’uccisione di Giacomo Matteotti aderì alla secessione dell’Aventino, le donne non sarebbero state adatte neppure nel ruolo di giudici popolari.

Fuori da pa e scuole

Conquistato il governo, ricorda Serri, Mussolini cacciò le donne da tutti i ruoli della pubblica amministrazione, ne dimezzò i salari, equiparò il femminismo all’antifascismo, estromise le donne anche dal mondo della scuola grazie alla riforma di Giovanni Gentile, per il duce «la più fascista di tutte le riforme», proibendo alle laureate di accedere alle cattedre di lettere e filosofia nei licei classici e scientifici e vietando loro l’insegnamento delle materie fondamentali nelle classi superiori degli istituti tecnici.

Un partito che proviene dalla tradizione del post-fascismo ha ora nuovamente conquistato il governo. E lo guiderà una donna, Giorgia Meloni: astuzie della storia, come direbbe qualche vecchio filosofo.


Mussolini ha fatto tanto per le donne! Le radici fasciste del maschilismo italiano (Longanesi 2022, pp. 272, euro 19) è un libro di Mirella Serri

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