Per una vera riforma del sistema fiscale, ispirata a criteri di equità ed efficienza, è necessario ripartire da un ridisegno radicale dell’Irpef. La scelta più importante, diversamente da quanto spesso si dice, non riguarda il numero degli scaglioni e delle aliquote. La questione sostanziale è quella della base imponibile. Quali redditi devono essere tassati in modo progressivo con l’Irpef? La risposta a questa domanda precede la discussione sul livello della progressività e delle aliquote.

Prima di confrontare il prelievo fiscale subito dai redditi elevati con quello dei redditi bassi bisogna chiedersi di quali redditi si sta parlando. Oggi, sono tassati nell’Irpef quasi esclusivamente i redditi da lavoro dipendente e da pensione. Questo accade a causa di due fenomeni, tra loro molto diversi, che sono l’erosione e l’evasione fiscale, e qui mi voglio concentrare sul primo problema, di cui si parla troppo poco o in termini confusi.

Riforma tradita

Quando l’Irpef fu introdotta, nel 1974, aveva l’ambizione di tassare tutti i redditi che gli individui possono ottenere dal proprio lavoro o dai propri risparmi secondo il modello di tassazione del “reddito entrata”. Se, infatti, ogni individuo deve essere tassato in base alla sua capacità contributiva, ogni reddito che rientra nella sua disponibilità andrebbe incluso nella base imponibile dell’imposta sul reddito.

Questo è il vero modo per garantire l’equità orizzontale, ovvero che due contribuenti che hanno lo stesso reddito, a prescindere dalla fonte da cui lo ottengono, paghino, in linea di principio, lo stesso ammontare di imposte. Ma da questo principio l’Irpef si è sempre più allontanata nei 50 anni della sua esistenza. L’erosione ha riguardato, in primo luogo, i redditi da capitale finanziario. Gli interessi sui titoli di stato, quelli sulle obbligazioni e sui conti correnti, nonché i dividendi e le plusvalenze ottenute da partecipazioni azionarie sono tutti esclusi dalla base imponibile dell’Irpef, e tassati con aliquote fisse (e quindi non progressive), tra l’altro spesso più basse di quelle previste dall’Irpef (ad esempio, gli interessi sui titoli di stato sono tassati di norma con aliquota del 12,5 per cento).

Lo stesso principio è stato esteso ai redditi ottenuti da capitale immobiliare attraverso la locazione di abitazioni, che sono anch’essi esclusi dall’Irpef e assoggettati alla cosiddetta cedolare secca con aliquota del 10 o del 21 per cento. Questo regime di favore sarà esteso ai canoni di affitto dei negozi se verrà attuata la delega del governo. L ‘ erosione dei redditi da capitale fa sì che ogni euro di questi redditi sia tassato nello stesso modo a prescindere dal reddito complessivo di chi lo ottiene.

Un pensionato che ottiene dai suoi faticosi risparmi 1000 euro di interessi o di canone di locazione è tassato, su quei 1000 euro, esattamente nello stesso modo in cui è tassato un rentier che ha avuto la fortuna di ereditare un patrimonio finanziario o immobiliare (su cui non è neppure detto che abbia pagato le imposte al momento dell’eredità). Questo non accadrebbe se questi redditi fossero inclusi nell’Irpef e tassati in modo progressivo, perché i redditi ottenuti dal rentier finirebbero negli scaglioni più elevati (diversamente dai 1000 euro del pensionato, se la sua pensione è modesta).

Una vera agenda progressista di riforma del fisco dovrebbe prevedere, innanzitutto, un graduale ma deciso superamento di questi regimi agevolati sui redditi da capitale. In primo luogo, va superata la cedolare secca che, come affermato nella Relazione evasione del 2022 pubblicata dal Mef, ha costituito una perdita di entrate che si è tradotta in un guadagno privato per la parte alta della distribuzione del reddito dei contribuenti. Di circa il 20 per cento della variazione fiscale complessiva ha beneficiato l'1 per cento più ricco e circa il 60 per cento di tutta la riduzione delle tasse è andata a vantaggio del 10 per cento dei contribuenti più ricchi”.

In base a questi dati, la reinclusione nell’Irpef dei redditi da locazione, quantomeno a partire dal secondo immobile, sarebbe del tutto ragionevole e aumenterebbe il gettito in misura pari ad almeno 1-2 miliardi di euro annui. In secondo luogo, vanno quantomeno superate le differenze di trattamento tra le diverse tipologie di redditi da capitale finanziario (a cominciare dal trattamento privilegiato degli interessi sui titoli di stato, che è oggi in buona parte anacronistico) e, in prospettiva, si deve tornare a ragionare, come già si sta facendo a livello internazionale, sulla reinclusione dei redditi da capitale finanziario nella base imponibile dell’imposta progressiva sui redditi individuali.

Favori agli autonomi

Ma l’erosione dell’Irpef si è verificata anche sul fronte dei redditi da lavoro, non solo di quelli da capitale. I redditi da lavoro autonomo e da impresa in buona parte sfuggono all’Irpef perché godono dell’imposta sostitutiva, nota anche come flat tax, prevista dal regime forfettario. Questo regime, nato nel 2007 come ipotesi di semplificazione del sistema fiscale destinata alle piccole partite IVA con fatturato annuo non superiore a 30mila euro annui, si è progressivamente dilatato fino ad arrivare, dopo gli allargamenti decisi dal governo Conte I e nella prima legge di bilancio del governo Meloni, ad includere lavoratori autonomi e imprenditori individuali con fatturato fino a 85 mila euro. In questo modo, una fetta enorme di reddito è stata esclusa dall’applicazione dell’Irpef: nel 2021 circa 1,8 milioni di autonomi e imprenditori hanno fruito dei regimi agevolati, mentre a soli 1,3 milioni di questo tipo di contribuenti sono state applicate le normali regole Irpef.

Tra l’altro, il regime forfettario crea anche delle iniquità (e delle ulteriori violazioni del principio di equità orizzontale) anche tra i lavoratori autonomi perché quelli che non possono accedere all’imposta sostitutiva, ad esempio perché hanno dei dipendenti, rimangono assoggettati all’Irpef.

Parità di trattamento

Bisognerebbe, quindi, gradualmente reincludere i redditi da lavoro autonomo e da impresa nell’Irpef e, da questo punto di vista, potrebbe essere utile prevedere un sistema di tassazione progressiva che, anziché basarsi sugli scaglioni, applichi la cosiddetta aliquota continua (il sistema cosiddetto alla tedesca, di cui si parlava quando Gualtieri era ministro dell’Economia) per consentire un passaggio morbido dal forfettario all’Irpef.

Ciò che conta davvero non è il modo in cui i redditi vengono tassati ma il principio della parità di trattamento dei redditi complessivi degli individui e la volontà di superare i regimi agevolati, che creano vantaggi solo per alcuni e sono molto costosi per lo Stato. Serve coraggio per mettersi alle spalle quell’idea, molto diffusa anche a sinistra, che una volta concessa un’agevolazione non si possa più tornare indietro e quel vero e proprio terrore che i politici hanno di fronte all’idea che una riforma fiscale generi dei “perdenti”. Se esistono delle argomentazioni solide per superare i regimi agevolati, e per molti di essi ne esistono eccome, una riforma dovrebbe prevederne la progressiva abolizione. Simile coraggio sarebbe poi necessario per rivedere ulteriori agevolazioni, come alcune tipologie di detrazione e deduzione che restringono ulteriormente la base imponibile dell’Irpef o diminuiscono il gettito senza che ciò sia giustificato da ragioni di efficienza o di equità.

E, ancora, la stessa logica dovrebbe essere adottata quando si guarda all’Iva. A questo proposito, spesso ci si concentra sui dettagli, ma la domanda che, con onestà, ci si dovrebbe fare è la seguente: chi beneficia davvero delle aliquote ridotte dell’Iva, al 4 o al 10 per cento? Se si rispondesse in modo non demagogico e guardando i numeri ci si renderebbe conto che la risposta è “soprattutto chi consuma in assoluto di più, quindi i benestanti”, non certo i poveri. E allora si dovrebbe ragionare in termini di superamento anche di questi regimi agevolati, con l’applicazione di un’unica aliquota Iva (intorno al 18-20 per cento) e pensando di destinare il maggior gettito che deriverebbe dal superamento delle aliquote ridotte alla spesa sociale che va veramente a beneficio dei più fragili e bisognosi.

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