Le ultime decisioni delle banche centrali non aiutano la finanza pubblica. La Bce ha aumentato ancora i tassi e mercoledì 20 la Fed, le cui mosse non sono senza influenza sui tassi europei, ha previsto nuovi prossimi aumenti, nonché tassi a breve americani ancora sopra il 5% alla fine del 2024. Il varo dell’aggiornamento del documento di economia e finanza (Nadef) e, nel trimestre successivo, della Legge di bilancio, non saranno semplici.

Vittorio Malagutti, su Domani del 20 e 21 settembre, ha ricordato i termini del problema. Sarà quasi impossibile stare entro i deficit previsti in aprile per i prossimi due anni, condivisi dalla Commissione europea. Sarà difficile affrontare il collocamento sul mercato dei titoli necessari anche per rifinanziare quelli in scadenza. Per non parlare della complessità di formulare un piano, poliennale e credibile, di riduzione del rapporto fra debito pubblico e Pil, anche per la scarsa crescita prevedibile del denominatore.

I mercati e il Patto di Stabilità

Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti ha detto che i mercati sono più temibili del Patto di stabilità. D’altra parte, un Patto credibile e varato in tempo potrebbe facilitarci sui mercati, rassicurandoli un poco sulla sostenibilità della nostra finanza pubblica. Se l’Unione rinviasse l’accordo, previsto per fine anno, per noi sarebbe peggio.

Con una politica monetaria che rimane ferma nella stretta antiinflazionistica sarà difficile evitare sacrifici nelle decisioni di spesa ed entrata pubbliche. Se non si rispettano le regole europee non si può beneficiare del Tpi, lo strumento per fronteggiare attacchi speculativi contro i paesi con debito elevato, predisposto dalla BCE. La quale, nel brevissimo periodo, può aiutarci favorendo i titoli italiani nel rinnovo di quelli in scadenza che detiene: ma è un meccanismo di portata limitata e temporanea.

Se poi la banca centrale decidesse di accelerare la vendita dei titoli del quantitative easing, la pressione al rialzo sui tassi italiani, che hanno più degli altri beneficiato del sostegno dei passati acquisti, crescerebbe ancor più.

Senza sacrifici, si rischia la crisi finanziaria, che del resto è il modo con cui è perito l’ultimo governo di centro-destra, nel 2011. Allora fu risolta con i sacrifici decisi dal governo Monti. Se ora ci mancasse il “Podestà italiano”, sarebbe triste doverci affidare al tanto disprezzato Mes (che però, cominciando dal 2010, salvò dal disastro finanziario ben cinque paesi dell’eurozona).

È dunque bene accordarsi su un buon Patto; servirebbe rispettarlo ancor prima che entri in vigore, cioè già con i numeri della Nadef, o addirittura prima che ci sia… l’accordo sul Patto. Invece, le comunicazioni del governo paiono contraddittorie e confuse.

È interessante che anche le banche centrali comincino a insistere di più sull’importanza della disciplina della finanza pubblica. Mentre confessano più o meno esplicitamente i loro passati peccati inflazionisti e sfidano l’impopolarità con la brusca stretta in corso, sostengono che l’inflazione è stata favorita anche da politiche di bilancio molto espansive e sembrano chiedere aiuto alla disciplina fiscale nel combatterla. Se continuano con questi nuovi toni di severità, ogni loro indulgenza per i paesi meno disciplinati, che è stata notevole per tanti anni, diverrà ancor più improbabile.

Nel Regno Unito ci sono già proposte di riforma della governance macroeconomica che introdurrebbero un esplicito coordinamento anti-inflazione delle politiche monetarie e di bilancio.

Spread e curva dei rendimenti

Il termometro più usato di questi problemi nell’eurozona è lo spread fra i tassi sul debito pubblico di ciascun paese e quelli di un paese con debito grande e liquido ma abbastanza basso rispetto al Pil e sicuramente sostenibile, cioè la Germania.

Uno spread alto fra due paesi con la stessa moneta significa un alto rischio-paese percepito da chi compra il titolo. Il nostro spread, misurato sui titoli con scadenza decennale è il più alto dell’eurozona, attorno all’1,8 per cento, quasi 45 punti base più della Grecia. Da metà giugno è cresciuto più degli altri, di quasi 20 punti. Anche misurandolo su titoli con due anni di scadenza, e quindi senza tener conto dell’incertezza dei successivi otto anni, lo spread italiano è alto, tre volte quello della Grecia e della Francia.

Non conta solo lo spread, ma anche il livello del tasso richiesto al singolo paese dal mercato. Più si alzano i tassi più entra in tensione lo spread con i paesi meno indebitati. Inoltre, il semplice fatto di dover pagare molto per collocare i titoli, peggiora i disavanzi e accresce la consistenza dei debiti, allarmando ancor più i mercati, con un circolo vizioso. Il rendimento dei Btp a dieci anni è salito al 4,5 per cento, 50 punti base in più che a inizio estate e di altrettanto maggiore del rendimento greco.

Il fatto che siamo in zona pericolo è inoltre confermato dalla forma della nostra “curva dei rendimenti”, cioè la linea che mostra come varia il tasso di interesse quando la scadenza si allunga, cioè quando si passa dai titoli a breve a quelli a lunga. La curva è molto influenzata dalle aspettative sull’andamento futuro dei tassi, perché se fra tre anni prevedo tassi più alti chiedo un tasso più alto sui titoli che scadranno fra tre anni.

Stretta monetaria

Quasi in tutto il mondo è in atto una stretta monetaria che terrà alti i tassi anche nei prossimi tempi, ma c’è poi la speranza che, scesa l’inflazione i tassi potranno scendere. Perciò le curve dei paesi tendono ad avere due gobbe: salgono fra le scadenze brevissime e quelle un poco maggiori, poi scendono un po’ riflettendo l’aspettativa di politiche monetarie meno restrittive; dopodiché risalgono ancora, perché i rischi di chi detiene titoli molto lunghi è comunque crescente.

Nel caso dell’Italia la discesa della curva è decisamente più corta che negli altri paesi: scende solo fra le scadenze di 9 mesi e 3 anni, mentre in Francia scende da 6 mesi a 6 anni e in Germania da 9 mesi a 8 anni: forse vuol dire che per noi sarà costoso andare a prestito anche quando la stretta monetaria finirà.

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