Cega è un «protocollo decentralizzato per investire in derivati esotici basati su criptovalute». Il suo fondatore Arisa Toyosaki promette – secondo quanto lui stesso ha spiegato durante l’importante conferenza ETHDenver dello scorso marzo – «elevati ritorni a meno che il mercato delle criptovalute non crolli di oltre il 50 per cento» (come però è accaduto proprio nelle ultime settimane).

Altre piattaforme, come Bacon Coin, offrono ai proprietari di case delle bizzarre opportunità di investimento, come «la possibilità di scambiare un pegno sulle loro abitazioni con un token non fungibile, o NFT, che rappresenta una percentuale della casa che hanno acquistato e che permette loro di accedere ad altri mercati finanziari legati alle criptovalute». Alcune società finanziarie del settore – a volte dai nomi bizzarri come CryptoWinners – propongono invece tassi d’interesse annui che arrivano fino al 24 per cento. Forme di prestito di criptovalute più complesse, come lo staking, arrivano a offrire ritorni annui anche dell’84 per cento.

È il selvaggio mondo della DeFi (decentralized finance), la finanza decentralizzata basata su blockchain che, secondo alcuni, rappresenta il futuro dei prestiti, dei mutui, delle scommesse e non solo, e secondo altri sta invece pericolosamente ricreando nell’ambiente delle criptovalute la stessa situazione che ha portato al crollo delle borse nel 2008.

Decentralizzare

Come spesso avviene nei nuovi settori della tecnologia (basti pensare al vagheggiato “metaverso”), anche dare una precisa definizione di cosa la DeFi esattamente sia non è facile. Da un certo punto di vista, la finanza decentralizzata – che nel suo complesso gestisce circa 40 miliardi di dollari – rappresenta l’analogo nel mondo blockchain dei tradizionali servizi finanziari.

Già dal nome si intuisce l’importanza attribuita alla decentralizzazione. In questo settore, infatti, non esistono autorità centralizzate che svolgono il ruolo di intermediari: gli accordi avvengono invece direttamente tra le parti coinvolte utilizzando gli smart contract, contratti automatici che entrano in esecuzione non appena le condizioni sottoscritte vengono soddisfatte. In questo modo, per fare l’esempio più semplice, non è necessario fidarvi che l’entità con cui avete sottoscritto una scommessa sportiva su Augur onori l’accordo, perché sarà la tecnologia stessa della blockchain a depositare nel vostro portafoglio virtuale la somma concordata non appena il risultato della partita sarà noto.

Ma è veramente così? Nel suo paper intitolato DeFi: Shadow Banking 2.0, la docente dell’università di Washington Hilary J. Allen afferma che questo settore «non disintermedia la finanza, ma semmai rimpiazza la fiducia verso un settore regolamentato come quello bancario con la fiducia in nuovi intermediari che spesso non sono identificabili e non sono regolamentati».

Se collegarsi direttamente alla blockchain con il proprio computer fosse qualcosa a portata di tutti, le transazioni potrebbero effettivamente verificarsi direttamente tra singoli. Poiché per farlo, però, sono necessarie elevatissime competenze tecniche, è inevitabile affidarsi a piattaforme come UniSwap, Aave, Compound e tantissime altre, confidando che tutto vada per il verso giusto.

Esiti catastrofici

Inevitabilmente, non sempre le cose vanno come auspicato, con esiti a volte catastrofici: attorno alla metà di maggio, il progetto legato alla DeFi noto come Luna è improvvisamente crollato, lasciando gli investitori con le tasche completamente vuote (e a volte anche in rovina). Un importante fattore in questo crollo è stato che le due criptovalute collegate a Luna – che ai loro massimi avevano una capitalizzazione complessiva di 80 miliardi di dollari – erano utilizzate in larghissima parte su una piattaforma di prestiti nota come Anchor, che prometteva il 20 per cento di ritorno sugli investimenti. Non appena qualche investitore di troppo ha iniziato a porsi delle domande sulla stabilità economica di Anchor, le persone sono corse in massa a ritirare e a rivendere le proprie criptovalute, polverizzandone il valore (che si è irreversibilmente azzerato).

Peggio ancora, come ha riportato Motherboard, «uno dei principali investitori di Luna, l’hedge fund specializzato in criptovalute Pantera, aveva incassato silenziosamente circa i quattro quinti del suo investimento appena prima del collasso, ottenendo poco meno di 170 milioni di dollari dagli 1,7 milioni di investimento iniziale». Un ritorno del 10mila per cento che ha scatenato la rabbia degli investitori “retail” (cioè non professionisti), che hanno visto in questa vicenda la prova di ciò che molti sostengono da tempo: gli speculatori e i fondi più importanti sfruttano a piacimento un mercato deregolamentato come quello delle criptovalute, gonfiando il valore dei progetti in cui investono per poi incassare non appena ottengono i risultati pronosticati.

I non addetti ai lavori – che non hanno accesso a un certo tipo di informazioni – si ritrovano così con il cerino in mano. Circa un mese dopo, una dinamica molto simile – anche se meno devastante – si è verificata con Celsius, altra piattaforma di prestiti che ha visto venire improvvisamente ritirato l’88 per cento del valore custodito.

Un mondo iperliberista

Nonostante la retorica dei criptoentusiasti, che sostengono che la DeFi democratizzi l’accesso agli strumenti finanziari e consenta di aggirare le inaffidabili e corrotte banche, la sensazione è che questo settore sia spesso meno affidabile e più corrotto di quello tradizionale, e che premi chi ha a disposizione maggiori mezzi, informazioni e spregiudicatezza. Secondo la professoressa Allen, inoltre, gli smart contract – a causa proprio della loro automazione – conferiscono un’eccessiva rigidità al settore. Nel 2008, scrive Allen, le società insolvibili hanno potuto negoziare con i creditori e in alcuni casi chiedere aiuto al governo. E se questi contratti fossero invece stati tutti automatizzati? «Le società sarebbero diventati insolventi prima che il governo potesse intervenire».

Probabilmente, nell’iperliberista mondo delle criptovalute, rendere impossibile l’intervento governativo è un pregio e non un difetto, ammette Hilary J. Allen. Il problema è che così, a pagare il prezzo più elevato, sono sempre le persone che si trovano alla base della piramide, peraltro prive di qualunque tutela anche nel caso in cui una piattaforma della DeFi subisca un attacco hacker. “A differenza della finanza tradizionale”, scrive Wired, “se qualcuno ruba i vostri soldi, la banca non è tenuta a risarcirvi: anzi, in questo settore non esiste proprio nessuna banca”. Non si tratta di un problema remoto, dal momento che nel solo 2021, nel corso di svariate truffe, sono stati sottratti oltre 10 miliardi di dollari in criptovalute.

Più in generale, però, il problema è alla radice: come possono alcune di queste piattaforme offrire tassi d’interesse che raggiungono facilmente il 15/20 per cento? Per farla breve, le piattaforme guadagnano investendo direttamente o prestando le criptovalute da loro gestite a investitori terzi. Il guadagno viene dal divario tra l’interesse che pagano sui depositi e quello addebitato sui prestiti. Di conseguenza, quando il mercato cresce in maniera impetuosa (com’è stato per tutto il 2020 e 2021), la richiesta di criptovalute è fortissima e i potenziali guadagni anche, offrendo di conseguenza tassi d’interesse molto elevati. Quando però il mercato entra in un fase negativa, com’è avvenuto nel corso del 2022, il timore che questi tassi d’interesse non siano più sostenibili si diffonde rapidamente, innescando la corsa ai prelievi.

D’altra parte, come ha dichiarato in tempi non sospetti Vitalik Buterin – fondatore di Ethereum molto tiepido nei confronti della DeFi – «se i tassi d’interesse sono significativamente più elevati di ciò che puoi ottenere nella finanza tradizionale significa o che si tratta di opportunità temporanee oppure che ci sono dei rischi non dichiarati». Negli ultimi mesi, abbiamo iniziato a vedere quanto possano essere disastrose le conseguenze di questi rischi.

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