Nel 2022, quando la guerra comincia a infuriare lungo chilometriche linee di fronte, l'Ucraina lotta per cacciare via Mosca non solo dalle trincee, ma anche dagli scaffali delle librerie, corridoi dell'università, palazzi del potere, da ogni singola casa. E pure delle cucine. Più o meno così è scoppiata, nella guerra grande, una guerra più piccola: quella per il brodo rosso di barbabietola, diventato simbolo di resistenza, di qualcosa di più grande di un piatto che si consuma da secoli a quelle latitudini. È emersa così quella che tutti hanno poi chiamato “guerra del borsch”.

Il processo di derussificazione in Ucraina era stato avviato molto prima del conflitto su larga scala, e in ogni campo: letterario, culturale, artistico, storico, toponomastico e anche gastronomico. Nel 2019 la star delle cucine Ievgen Klopotenko, lo chef che ha cucinato il borsch anche per l'ex segretario di Stato statunitense Antony Blinken, insieme a una squadra di storici del cibo ed etnografi, ha ingaggiato la pugna per la paternità ucraina del borsch all'Unesco.

Prima di diventare un'icona degli schermi tv, con il suo taglio di capelli hipster, biondi baffi indimenticabili, Klopotenko ha vinto un'edizione di Masterchef. Ha scritto un libro su cibo e identità nazionale: «L'autentica cucina ucraina: ricette di uno chef nativo». Ha documentato la preparazione del borsch in tutto il paese e ha dichiarato al Financial Times che lo ha intervistato: «Quello che ci unisce è il borsch». Dopo tre anni, nel 2022, all'Onu si ricordano dell'istanza di Klopotenko e si accorgono della necessità di “salvaguardia urgente” della zuppa.

Nel 128esimo giorno di guerra, a luglio 2022, l'Unesco si riunisce a Parigi in seduta straordinaria per la prima volta nella sua storia «data la situazione contingente del conflitto». Il comitato del patrimonio culturale immateriale decide all'unanimità, senza alcuna obiezione dei membri dell'organismo tecnico, che il borsch fa parte del patrimonio immateriale Unesco ed è piatto tipico della cucina ucraina. «La vittoria nella guerra del borsch è nostra!» rivendica subito Oleksandr Tkatchenko, allora ministro della Cultura ucraino, che in quel successo intravede sinceramente la profezia del trionfo militare sul campo.

Il Cremlino e gli altri

La questione borsch arriva di conseguenza nei corridoi del Cremlino. In conferenza stampa al ministero degli Esteri la portavoce Maria Zakharova tuona che «l'oppressione dei russi ha raggiunto anche l'industria della cucina», gli ucraini non vogliono condividere il borsch con nessuno. Questo è certo sintomo di “xenofobia, fascismo ed estremismo”, rappresenta l'ennesimo fenomeno di ucrainizzazione. Nella diatriba borsch poi sono entrati, uno dopo l'altro, sociologi del cibo, etnografi, antropologi; sono intervenuti chef d'origine russa e ucraina per dire la loro. Intanto, il piatto continuava ad essere servito da Bratislava ad Astana.

Se entri in un ristorante in Polonia ti servono il barszcz. Così chiamano il borsch che trovi anche nei locali dei Baltici fino a quelli del Kazakistan. Pare che la radice del nome della zuppa della discordia sia yiddish, con t finale: borscht. Se si va ancora più indietro, e un'indagine l'ha tentata la Bbc, la parola deriva da borshchevik, una pianta che nell'antica Rus' veniva usata per le zuppe. (Nei dizionari scientifici si trova sotto la voce heracleum sphondylium). Era diffusa in Eurasia ma soprattutto «nelle zone paludose intorno ai delta del Danubio e del Dnipro». Il borsch è più antico della guerra, perfino più antico della fondazione dei due Stati. È sopravvissuto a secoli, evoluzioni, rivoluzioni, diatribe territoriali e carestie.

Una bugia sul borsh è che esista un solo borsch. Ci sono variazioni infinite della sua preparazione, quante città, regioni, paesi in cui è diffuso. A battesimi, compleanni, matrimoni e funerali la zuppa c'è sempre. Ciò che fa del borsch un borsch è il colore: rosso violaceo. In profondità, nel pozzo della ciotola ci sono patate, cipolla, cavolo dolce, a volte peperoni o pomodori o entrambi. Di certo carne. Di manzo o maiale. Di anatra o agnello. Qualcuno usa sardine.

Dentro al borsch può capitare quello che trovi, che ti regalano, che è sopravvissuto in frigo. Galleggiano scaglie verdi e nuvole bianche in superficie: c'è l'aneto, l'ukrop, termine che i russi usano in modo derisorio perché suona simile alla parola ucraini. (L'esercito di Zelensky ha cominciato a rivendicarlo: sulle mimetiche sono apparsi distintivi di feltro dove era ricamata la piantina verde; per un periodo, dopo la rivolta di Maidan, è anche esistito un partito ultranazionalista di nome Ukrop). Poi c'è l'indispensabile smetana, la panna acida, pure quella diffusa sulla mappa di tutto l'ex impero sovietico.

Cavoli e propaganda

Sta in ogni stolovaya, mensa di ogni città. Nei refettori delle prigioni, delle scuole, dell'università, delle fabbriche. Esiste il borsch familiare, istituzionale, sovietico, socialista, asiatico, ospedaliero, universitario, hipster. Ognuno ha il suo borsch intimo, privato e personale, in ogni cucina che fa patria a sé, perché cibo è memoria, passato, tradizione e identità. Alla fine degli anni Trenta lo sa anche Stalin, che vuole che la sua macchina della propaganda, per la costruzione del comunismo e omologazione rossa, penetri ovunque, pure nelle stanze dove si fa bollire il cavolo. E pure se il suo, verrà ricordato da molti come regno di morte, di purghe e fame.

Il capo del Pcus vuole unire, come ingredienti, tutti i popoli dell'Unione sovietica. Un melting pot à la soviet: un borsch. Stalin affida il compito di stilare un ricettario del cibo dell'Urss al suo commissario Anastas Mikoyan, un armeno che è unito ai bolscevichi nel 1915, un semi-immortale membro del Politburo che serve sotto Lenin, Stalin, Krushchev e si ritira solo sotto Breshnev, che dà alle stampe nel 1939 Il libro del cibo sano e gustoso. Per qualcuno quella diventa la vera bibbia, testo più sacro delle Aprel'skie tezisy, le Tesi d'aprile di Lenin. Dentro c'è anche la ricetta della zuppa che sta in ogni memoria nostalgica dei bambini slavi.

Nutrimento comunista

In quelle memorie c'è anche il leggendario gelato plombir, composto da un cono che sembra il reattore di una centrale nucleare rovesciato. Sopra ha una rotondissima luna di vaniglia. È icona del mondo soviet, eppure nasconde un'origine capitalista che pochi conoscono. L'Urss cominciò a produrlo massivamente nel 1937 dopo un viaggio di Mikoyan negli Stati Uniti: il commissario si innamorò delle palle fredde dei capitalisti e, quando tornò in patria, si portò via anche gli apparecchi made in Usa per produrre il dolce freddo che, poi, fu diffuso in tutte le Repubbliche socialiste con un nome che ricordava vagamente quello di un dessert francese.

È una vicenda che spinge a porsi domande sull'anatomia del mito di ogni cibo, l'origine di ogni piatto. Al vaglio potrebbe finire ogni portata del menù che condividono dalla Polonia alla Siberia: oltre il borsch, bisogna indagare l'origine dei bliny, crespelle dolci o salate, dei syrnyki, frittelle di ricotta, vareniky, mezzelune di pasta ripiena, pelmeny, ravioli circolari, pirozhki, una specie di focaccia. Del salo, quel lardo salato che si mangia prima della zapoj, quella sbronza che durerà un paio di giorni e non solo un paio d'ore.

A Viktor Belyaev, che ha lavorato per trent’anni nelle cucine del Cremlino, non interessa di chi sia il borsch, ma solo che «quando le persone siedono allo stesso tavolo, i cannoni tacciono». Non è quello che accade oggi tra Russia e Ucraina dove i soldati, intorno agli sguardi stanchi, hanno occhiaie tonde e violacee come le ciotole piene di quella zuppa. Nel quarto anno di guerra stanno ancora da un lato e dall'altro della barricata. Mangiano lo stesso identico piatto.


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