La vita della popolazione nella Striscia dipende interamente dagli aiuti esterni, che non bastano. L’Idf centellina l’ingresso di cibo: «Non è solo strumento di sottomissione, distrugge la coesione». Questa non è la prima volta nella storia in cui la carestia procurata viene utilizzata come un’arma
- Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola da sabato 28 giugno
A Gaza una vita umana costa circa un euro e trenta centesimi. Lo sa bene Abdul Rahman Zeidan che per un pacco alimentare di quel prezzo ora non ha più una madre. Reem Zeidan, infatti, è stata uccisa lo scorso 3 giugno con un proiettile sparato da un cecchino israeliano, mentre si stava recando al centro di distribuzione della Gaza humanitarian foundation (Ghf) a Rafah, nel sud della Striscia. Insieme a migliaia di civili ridotti alla fame dopo settimane di assedio, Reem Zeidan cercava di prendere uno dei pacchi alimentari forniti dalla fondazione. Il loro contenuto varia, ma generalmente si trovano farina, crackers, biscotti, semola, zucchero e lenticchie o ceci. Il costo di ogni pacco è di 1.30 euro.
Non è la prima volta che le truppe dello stato ebraico hanno sparato sulla folla in cerca di aiuti umanitari. In sole tre settimane, episodi di questo tipo si sono verificati a intervalli regolari. In totale, sono state uccise più di 300 persone e ferite oltre 2000. Ma il bilancio peggiora ogni giorno, il 17 giugno c’è stato un altro massacro. Il peggiore di sempre: 47 persone sono state uccise e oltre duecento sono rimaste ferite nei pressi di un centro di distribuzione a Khan Younis.
In alcuni casi le forze armate israeliane (Idf) hanno negato un loro coinvolgimento, in altri hanno ammesso di aver sparato contro «persone sospette». La Ghf, invece, ha sempre minimizzato gli episodi e ha fatto sapere che le consegne degli aiuti si sono svolte senza problemi. Falsità documentate da inchieste giornalistiche di media internazionali come Bbc, Cnn e Al Jazeera. Gli aiuti umanitari, a Gaza, sono diventati una trappola mortale contro i civili.
Strategia militare e patto sociale
Oltre il dato statistico di morti e feriti, c’è una ratio dietro la privatizzazione e la militarizzazione del nuovo piano di distribuzione degli aiuti ideato da Israele con il consenso della Casa Bianca. Secondo alcuni analisti, nella Striscia è in corso un esperimento di strategia militare studiato a tavolino. A Gaza il cibo viene usato come un’arma, al pari delle bombe sganciate dagli aerei da caccia, dai colpi sferrati dai carri armati e dalle raffiche delle armi imbracciate dalle truppe dell’Idf. Una strategia militare che ha l’obiettivo non dichiarato di tenere la popolazione in uno stato perenne di fame controllata.
Ma tutto ciò ha anche altre due ripercussioni: da una parte contribuisce a generare immagini che contribuiscono alla disumanizzazione dei civili, dall’altra squarciare uno dei simboli del popolo palestinese, ovvero la sua unità. Lo spiega bene Yousef Hamdouna, membro della ong Educaid: «La fame non è solo uno strumento di sottomissione, ma un processo di frattura interiore che distrugge la coesione dell’identità individuale e della società nel suo complesso.
Ed è proprio qui che risiede la pericolosità della fame: non a caso, la starvation della popolazione civile è considerata un crimine di guerra». Almeno 29 tra bambini e anziani sono morti di inedia a maggio. L’unità dei gazawi, quindi, è spezzata dall’istinto individualista che rompe il patto sociale vigente: «Ogni padre, ogni madre, pensa solo alla sopravvivenza della propria famiglia». Sottomettere e disunire.
Sfollare i civili
Dal 2 marzo al 19 maggio del 2025 Israele ha imposto un assedio totale a Gaza. Ma la situazione era sull’orlo della carestia da tempo. Secondo uno studio scientifico della rivista The Lancet «ad aprile 2024, oltre 1.1 milioni di persone a Gaza stavano vivendo livelli catastrofici di insicurezza alimentare, i livelli più alti mai registrati in una moderna zona di conflitto». A maggio del 2025 nei pressi del valico di Rafah, l’unico punto di frontiera tra la Striscia e l’Egitto, erano fermi più di 1500 camion carici di aiuti ai bordi della strada. La Croce Rossa egiziana ha finito lo spazio disponibile per immagazzinare i prodotti.
Il primo stabilimento di oltre 30mila mq è completamente pieno, ora gli operatori stanno ampliando un secondo grande quasi il doppio. Il governo israeliano ha giustificato la sua scelta affermando che gli aiuti finissero nelle mani di Hamas.
«L’accusa non è fondata perché abbiamo sistemi di controllo, sappiamo dove va ogni cosa, chi distribuisce cosa. E se riceviamo segnalazioni di deviazioni, le indaghiamo. Quello che sta succedendo ora è una punizione collettiva contro due milioni di persone di cui la metà sono bambini», ha raccontato a Domani Juliette Touma, direttrice della comunicazione dell’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa).
Mentre proseguiva l’assedio il gabinetto di guerra israeliano portava a compimento il suo piano tra le critiche delle Nazioni unite che avevano in gestione la consegna degli aiuti umanitari attraverso oltre 400 punti di distribuzione nella Striscia. Ora gli aiuti vengono distribuiti attraverso quattro centri di distribuzione, la maggior parte dei quali situati a Rafah in un’area considerata ancora come terreno di scontro militare e quindi pericolosa per i civili.
Per arrivarci, i gazawi raccontano di dover percorrere anche fino a 15 chilometri a piedi, una distanza che diventa interminabile sotto il sole estivo. Se a questa situazione si somma che il peso del pacco alimentare basta solo a sfamare le famiglie, quelle fortunate che riescono a ottenerne uno, solo per qualche giorno si innesca un pellegrinaggio perenne e pericoloso verso i centri.
Razioni all’osso
La popolazione di Gaza, oggi, dipende interamente dagli aiuti umanitari dopo che l’esercito israeliano ha distrutto la capacità di produzione locale. I campi agricoli sono stati interamente devastati dai carri armati, la pesca è proibita e le aziende sono andate distrutte nei raid aerei. La vita di due milioni di civili è strettamente condizionata dalla quantità di cibo che viene dall’esterno. E oggi questo non basta. Secondo un’analisi dell’International Crisis group (una delle principali organizzazioni non governative che si occupa di prevenzioni di conflitti) la popolazione viene volutamente mantenuta al di sotto della soglia della carestia.
A dimostrarlo sono i dati della quantità di calorie che vengono “iniettate” nella Striscia. Da luglio 2024 a gennaio 2025, secondo i dati del think tank americano, «le restrizioni israeliane hanno limitato il Programma alimentare mondiale (Pam) a fornire meno di 1.600 calorie a persona al giorno, ben al di sotto del suo obiettivo di 2.100 calorie». La Ghf promette, invece, 1.750 calorie giornaliere per persona.
Ma non tutti hanno accesso ai pacchi alimentari: basta pensare ai feriti che non sono in grado di arrivare fino ai centri, ai minori non accompagnati, agli anziani. Si tratta comunque di un apporto calorico basso dopo oltre 80 giorni di assedio totale e comunque meno rispetto ai calcoli del ministero della Difesa israeliano. Durante il blocco imposto su Gaza tra il 2007 e la metà del 2010, i militari avevano calcolato il requisito minimo per evitare la malnutrizione intorno alle 2.300 calorie per persona. Quantità lontana da quella somministrata oggi.
La storia
Nel corso della storia, la fame è stata utilizzata più volte come strumento di guerra. È stato fatto in maniera sistematica e deliberata. Non si tratta di semplici effetti collaterali dei conflitti, ma di strategie pianificate per indebolire, sottomettere o sterminare intere popolazioni. Non è un caso se il diritto internazionale vieta, all’articolo 54 del Protocollo I delle Convenzioni di Ginevra, «l’uso della fame contro i civili come metodo di guerra». A questo si aggiunge l’art. 82 della Corte penale internazionale che la definisce un crimine di guerra.
Durante il genocidio degli armeni parte della popolazione morì di fame nelle marce forzate nel deserto siriano per mano dell’Impero Ottomano. Nel 1995 durante l’assedio di Sarajevo le forze serbe bloccavano i convogli delle Nazioni unite che cercavano di portare aiuti alla popolazione. Alcuni carichi venivano confiscati e la fame serviva come arma di pressione politica e strumento di punizione collettiva. Note le stragi del mercato di Markale, dove in due bombardamenti tra il 1994 e il 1995 sono state uccise 105 persone e ferite più di 230.
Senza andare troppo lontano nella storia sono ancora fresche le immagini diffuse dai servizi giornalistici realizzati in Yemen negli anni più feroci della guerra civile. L’Arabia Saudita aveva imposto un blocco totale dei porti del paese arabo per cercare di colpire il gruppo ribelle filoiraniano degli Houthi, ottenendo un effetto devastante. Secondo le notizie diffuse dalle Nazioni unite lo scorso marzo, dopo dieci anni di conflitto, un bambino yemenita su due è severamente malnutrito. Si tratta di oltre 540mila minori. Secondo l’Unicef, oggi, più di venti milioni di civili fanno affidamento esclusivamente sull’assistenza umanitaria.
Anche nel conflitto civile siriano il regime di Bashar al Assad aveva usato la fame come arma. Interi quartieri di Aleppo e Madaya sono stati assediati imponendo un blocco totale per costringere i ribelli ad arrendersi alle forze militari governative. La storia è maestra.
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