La fame come arma di guerra. Lo sanno bene i Palestinesi che vivono a Gaza, dove la situazione negli ultimi mesi si è fatta più tragica a causa del frequente blocco degli aiuti alla popolazione civile da parte di Israele, un atto illegale secondo il Diritto internazionale umanitario e che vìola direttamente la Risoluzione 2417 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Una situazione non nuova anche per l’Onu, che già nel dicembre 2023 aveva evidenziato come l’80 per cento della popolazione mondiale sottoposto alla “fame catastrofica” fossero proprio i palestinesi nella Striscia. Il cibo, però, può essere anche un modo per affermare la propria identità e collegarsi, almeno idealmente, alla propria terra, anche quando si è lontani decine di migliaia di chilometri. Secondo i dati Istat, al primo gennaio 2024 erano appena 1440 i palestinesi presenti in Italia, concentrati soprattutto in regioni come Lazio, Lombardia e Piemonte.

Un dato da considerare per difetto, visto che molti altri potrebbero essere stati registrati con una cittadinanza diversa (ad esempio giordana, libanese o siriana) oppure come apolidi. Questo, probabilmente, giustifica la presenza ridotta di ristoranti e locali di cucina palestinese in giro per l’Italia, mentre dall’altro lato sono numerosi invece quelli che rimandano all’area medio orientale, come la Turchia, il Libano e l’Egitto.

Un ristorante per sapere cosa succede

Uno dei pochi ad aver intrapreso questa strada è Ahmed Abuhussein, arrivato in Italia poco più di 25 anni fa da Nablus, città della Cisgiordania, e oggi titolare di Street Food Betlemme, ristorante in Porta Venezia a Milano. «Ho aperto questo locale nel febbraio 2020, in piena epoca Covid, per far conoscere il mio paese e il suo popolo, la sua identità. All’inizio in tanti non sapevano dove fosse la Palestina: per questo ho scelto di far conoscere la cucina del mio popolo in questa città e in questa zona, dove già c’erano altre cucine etniche», racconta Abuhussein.

Nell’ultimo periodo, anche a causa della guerra, i clienti sono aumentati. «La gente viene da noi per capire cosa sta succedendo, soprattutto i più giovani. L’80 per cento di coloro che entrano mi chiedono le ragioni del conflitto perché sanno solo che Israele si sta difendendo, leggendo quello che riportano i giornali. In molti, poi, mi hanno chiesto: “Ma esiste una cucina palestinese?”. Il cibo è un modo per avvicinare la Palestina agli italiani», spiega il titolare di Street food Betlemme. Molti piatti e specialità della cucina palestinese sono simili a quelli di altri paesi mediorientali, con la presenza di alcune varietà locali.

«Sicuramente il piatto principale, che è un po’ anche il mio vanto, è il falafel, una specialità autenticamente palestinese, ma ci sono anche l’hummus; la crema di ceci e lo shawarma, preparato con carne sia di marzo che di pollo. A fare la differenza sono spesso le preparazioni: ad esempio il falafel che preparo io, come mi è stato insegnato a casa, è senza aglio e senza cipolla. In Palestina, poi, noi lo facciamo anche con i ceci, mentre gli egiziani lo fanno con le fave e i turchi con il coriandolo e altri tipi di spezie» sottolinea Abuhussein. Non mancano i dolci, come «il kunafa che viene da Nablus e composto da farina, formaggio, sciroppo di mele, pistacchi secchi, e quelli presenti anche in altri Paesi, come il baklava».

Molte somiglianze ci sono anche con i piatti di Israele: all’epoca della fondazione la cucina mediorientale è stata tra le principali forme di ispirazione. «Le cucine dei due paesi si assomigliano molto, è innegabile: molto di quello che assaggi a Tel Aviv lo trovi anche a Gerusalemme. Alcuni piatti, però, restano una nostra prerogativa, come il falafel» conclude Abuhussein.

I piatti come tradizione e ricordo

Un fenomeno non molto diverso è quello a cui si assiste a livello editoriale: negli ultimi quindici anni, infatti, sono usciti diversi libri di cucina palestinese, perlopiù in lingua inglese. La selezione di titoli in lingua italiana, invece, è piuttosto ristretta: anche titoli come Falastin (2020) e l’ultimo Boustany (2025) di autori come Sami Tamimi, chef palestinese che fa la spola tra Londra, dove ha sei gastronomie e ristoranti, e l’Umbria, non prevedono per il momento una versione tradotta.

Una delle poche eccezioni è Pop Palestine, libro scritto in italiano da Silvia Chiarantini e dalla chef palestinese Fidaa Abuhamdiya. «Non è un vero e proprio libro di ricette, è un racconto di un viaggio in Palestina da parte di quattro ragazzi italiani, che si recano lì con la scusa di fare un film sul cibo. Per questo nel volume si raccontano i luoghi, le esperienze e l’ospitalità palestinese, con le ricette che cercano di scandire le tappe di ogni viaggio» racconta Abuhamdiya, nata e cresciuta a Hebron e arrivata in Italia nel 2004.

«Sono interprete di arabo e insegno cucina, facendo la spola tra Ramallah, in Palestina, e l’Italia, dove vivo» continua. Anche nel suo caso la guerra ha cambiato l’atteggiamento generale. «Nell’ultimo periodo si nota una maggiore attenzione alla Palestina: nei primi anni quando mi definivo palestinese sembrava che stessi dicendo di venire da Marte, con la gente che mi guardava stupita. Avvicinarsi alla cucina è un modo di far conoscere la Palestina a un popolo come quello italiano, che è anche orgoglioso delle proprie tradizioni culinarie» sottolinea Abuhamdiya.

Tradizioni che non mancano anche in Palestina e che riguardano anche alcune specialità culinarie. «Abbiamo delle tradizioni che sono e che restano peculiari per il popolo palestinese. Un esempio è un piatto come la Summaqya, tipico del popolo gazawi e che prende il nome da una spezia, il sommaco. Questa specialità viene preparata soprattutto per occasioni speciali come i matrimoni e non si trova in altri paesi arabi. Un altro esempio è la Rummaniyya, una specialità tradizionale composta da lenticchie, melanzane e soprattutto melograno, in arabo “Rumman” e che dà il nome al piatto, che i palestinesi di Yafa hanno portato a Gaza. Anche chi è lontano da casa sente i piatti della tradizione come vivi e come un modo per essere ancora legati alla propria terra. Un modo per conservare questa cultura e per far vivere questi piatti» sottolinea Abuhamdiya.

Le spezie 

A fare la differenza, poi, spesso sono anche le spezie. «Usiamo molto il sommaco, una spezia dal sapore aspro che usiamo nella cucina palestinese, e il timo che, insieme al sale e ad altre spezie, mettiamo sul pane come colazione al mattino. Da molti anni, però, il timo selvatico non viene più raccolto in tutta la Palestina storica, perché gli israeliani hanno vietato di raccoglierlo sostenendo di preservare così l’ambiente» rimarca la coautrice di Pop Palestine. Oggi la cucina a Gaza è «una cucina di arrangiamento, dove si è costretti a rinunciare alla carne e a dover ricavare il pane dalla pasta, perché avere un po’ di farina può significare anche perdere la propria vita».

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