Da decenni in Cisgiordania si consuma una guerra silenziosa contro la terra e le sue radici: ulivi sradicati, terre espropriate e biodiversità calpestata. Ma alla distruzione si oppone il Sumud, la resilienza/resistenza agricola e culturale
- Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani, sullo sfogliatore online e in edicola
Se si leggono in sequenza i numeri degli espianti forzati di ulivi – ma anche di mandorli e vigneti – in Cisgiordania, viene in mente un’altra conta dei morti. Qui sono gli alberi a cadere, le cui radici rappresentano l’ancoraggio dei palestinesi a terre sistematicamente sottratte e quando non sono bulldozer, sono pesticidi spruzzati o incendi appiccati.
La storia è vecchia, va avanti da almeno sessant’anni, da quando, a partire dall’occupazione del 1967, Israele ha utilizzato varie misure – ufficiali e non – per tagliare fuori i contadini palestinesi dalle loro terre e assegnarle ai coloni. Sono terre aride dove le coltivazioni tradizionali sono sempre state quelle dell’ulivo, dei legumi e dei cereali, insieme a un po’ di pastorizia. Attività che, se sopravvivono, devono ottenere il permesso per costruzioni, nuove coltivazioni o allevamenti.
Parchi e foreste al posto degli uliveti
Sono alcune organizzazioni non governative israeliane a dare il senso della pericolosità di una cosa in realtà semplice, la raccolta delle olive. L’ong Yesh Din ha calcolato che nel solo mese di ottobre del 2024 ci sono stati almeno ottanta aggressioni in quarantadue villaggi palestinesi e, a distanza di quasi due anni dall’attacco di Hamas a Israele, gli accessi ai terreni durante i raccolti hanno subito crescenti restrizioni. A denunciare è un’altra ong israeliana, HaMoked, che parla di interdizione nelle aree indicate come Seam Zone dalle forze di difesa israeliane (la striscia di terra che si trova tra il muro di separazione israeliano e il confine riconosciuto internazionalmente tra Israele e la Cisgiordania) e che costituiscono quasi il dieci per cento della Cisgiordania.
Sono anche i terreni più fertili e che generano fino a 70 milioni di dollari all’anno per i produttori di olive – tra il 25 per cento e il 33 per cento della popolazione è coinvolta nella lavorazione – e che danno vita oltre all’olio anche al rinomato sapone di Nablus. I distretti settentrionali della Cisgiordania rappresentano il 68,5 per cento degli ulivi della Palestina. I distretti meridionali contengono il 30,1 per cento di ulivi, mentre il restante 1,4 per cento si trova nella Striscia di Gaza.
Una guerra silenziosa resa ancora più silente dall’attenzione del mondo su Gaza. Un landscape coloniale che conosce continue modifiche, tirando in ballo anche motivazioni ambientaliste.
È quello che ha fatto il Jewish National Fund, istituito secolare, tra le organizzazioni sioniste internazionali più coinvolte in questioni forestali e di conservazione ambientale. Al suo impegno si deve la nascita di molti parchi e foreste che hanno preso il posto di migliaia di ettari di uliveti a partire dal 1948 in poi – l’anno della Nakba. Così anche gli spazi verdi hanno giocato un ruolo importante nelle politiche di occupazione e i pini d’Aleppo ne sono diventati il simbolo. Dalla creazione dello stato di Israele nel 1967 sono stati piantati oltre 223 milioni di alberi non autoctoni, a scapito di oltre 800mila alberi di ulivo.
Il green colonialism di Israele
Come ha scritto la studiosa di diritto e di etnografia Irus Braverman la dipendenza economica dei palestinesi dagli ulivi ribadisce anche la venerazione culturale e religiosa per l’albero dell’ulivo. Insieme ai fichi, infatti, l’ulivo è shajara mubaraka, un albero sacro benedetto da Allah nel Corano ed è anche noto come «l’albero del povero» (Shajara el Fakir).
Al lavoro di Braverman guarda Mauro Von Aken, ricercatore in Antropologia Culturale presso l’Università Milano-Bicocca che ribadisce l’importanza di un’altra parola araba, Sumud: «È difficile da tradurre – spiega il ricercatore – vuol dire fermezza o perseveranza, ma anche resilienza o resistenza. Eppure, sebbene abbia a che fare con l’azione, non riguarda apertamente la lotta armata.
Per i palestinesi è un simbolo nazionale, una strategia politica e un valore culturale. Gli israeliani hanno risposto con quello che oggi conosciamo come “colonialismo green” una forestazione forzata che aveva il compito di radicare l’”uomo nuovo” in una terra che rivendicava come propria. Lo scopo pragmatico era anche quello di, tramite pinete esogene, di nascondere la distruzione di villaggi palestinesi. Ecco che l’ulivo diventa un’icona di resistenza, al punto che, per dimostrare il possesso dei terreni, i palestinesi devono testimoniare di essere proprietari di ulivi che abbiano almeno otto anni».
La resistenza passa anche dai cibi biologici e baladii
Più dei 60mila morti è stata la fame della popolazione di Gaza a scuotere la coscienza internazionale. La privazione del cibo è da sempre un’arma di guerra e la distribuzione dei beni alimentari affidata alla Gaza Humanitarian Foundation – la sola organizzazione non governativa autorizzata da Israele - è per molti la prova dell’uso bellico della fame.
«Va ricordato anche – continua Von Aken – che la Palestina è uno scrigno di tesori di agro-biodiversità. Come parte della Mezzaluna Fertile, ha contribuito a diffondere il sapere agricolo. Ci sono centinaia di piante selvatiche che ancora oggi fanno parte dell’alimentazione dei palestinesi, ma anche la loro raccolta viene impedita. Nel contesto palestinese, forti sono le narrative del bio definito come “locale”(baladii), che viene mortificato dall’imposizione dei prodotti israeliani, figli dell’agrobusiness. Così i territori occupati sono costretti a consumare cibo israeliano».
Eppure il Sumud, la resilienza/resistenza passa anche dal cibo e dopo ogni ondata di distruzion, molte famiglie palestinesi – con l’aiuto di ONG, cooperative e iniziative internazionali – ricostruiscono piantando nuovi alberi. Così fa l’Arab Group for the Protection of Nature (Apn) che, con il progetto “Million Tree Campaign” ha piantato oltre 2,5 milioni di alberi (ulivi, mandorli, agrumi) dal 2001 ad oggi; c’è l’Ong “Zaytoun” (UK) che insieme al programma “Trees for Life”, finanzia la piantumazione tramite donazioni esterne e crowdfunding.
C’è poi la Canaan Fair Trade, la più grande rete di agricoltori palestinesi biologici che, tramite il sito canaanpalestine.com, mette in vendita cibi locali. E vale la pena conoscere il lavoro – e i prodotti dell’ecommerce – di Sindyanna of Galilee – sindyanna.com – una cooperativa mista arabo-ebraica con forte impronta femminista e anti coloniale. Il loro olio di oliva è super premiato. Lo adora anche lo chef Yotam Ottolenghi.
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