Ashraf (il nome è di fantasia) è un cittadino afghano che vive in Italia. È titolare da tempo di uno status giuridico di protezione sussidiaria che gli permetterebbe il ricongiungimento familiare con la moglie rimasta in Afghanistan. La scorsa estate, quando i Talebani hanno ripreso il potere, preoccupato per l’incolumità della donna, Ashraf si è presentato alla prefettura di Roma, dove ha ricevuto regolarmente il nulla osta per il ricongiungimento. 

La normativa prevede due fasi: la prima si svolge davanti allo sportello unico per l’immigrazione alla prefettura, dove si verificano i requisiti oggettivi: il titolo di soggiorno, l’esistenza di un reddito adeguato e di un alloggio, oltre che l’assenza di circostanze ostative di pubblica sicurezza. Il secondo passaggio si svolge davanti alla rappresentanza consolare, con la verifica dei requisiti soggettivi: i legami di parentela e altre caratteristiche dei soggetti da ricongiungere.

Sempre secondo la normativa, chi ha superato la prima fase dovrebbe ottenere entro sei mesi un visto per l’ingresso in Italia, nell’ambasciata italiana esistente nel paese straniero. Nel frattempo la moglie di Ashraf nell’estate ha lasciato l’Afghanistan per il Pakistan, con l’ambasciata di Islamabad che è quindi diventata competente della pratica. Per mesi la coppia ha cercato di ottenere un appuntamento per il visto, via mail e al telefono. Senza mai ottenere un riscontro.

Il rischio del rimpatrio

La moglie di Ashraf si trovava così irregolarmente in Pakistan, in attesa di ottenere il visto per raggiungere il marito. Rischiava di essere rimandata in Afghanistan e di essere vittima dei soprusi del regime talebano, essendo una donna sola. Per questo, il marito a dicembre si è rivolto al giudice ordinario del tribunale di Roma.

Gli avvocati Giulia Crescini e Salvatore Fachile hanno presentato un riscorso d’urgenza, spiegando che la donna correva «il rischio concreto di dovere fare rientro nel paese di origine e di subire trattamenti inumani e degradanti». E la giudice Damiana Colla del tribunale civile di Roma, con sentenza emessa il giorno della vigilia di Natale, ha ordinato al ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale (Ambasciata d’Italia a Islamabad, Pakistan), «in persona del legale rappresentante, la fissazione urgente di appuntamento per la richiesta di visto per ricongiungimento familiare in favore della moglie del ricorrente, entro e non oltre il 21 gennaio del 2022».

«È una pronuncia particolarmente importante», spiegano dall’Associazione studi giuridici immigrazione (Asgi). «Sempre più spesso i familiari non riescono a ottenere un appuntamento in ambasciata, dopo aver ricevuto il nulla osta. Il rischio è che la procedura nel frattempo possa scadere».

Giornalisti senza visto

Qualche giorno fa la stessa associazione aveva dato la notizia di un’altra pronuncia del tribunale di Roma contro la Farnesina, per un caso in parte simile a quello di Ashraf. Questa volta però riguardava due fratelli, un uomo e una donna, entrambi giornalisti di origine afghana. Avevano chiesto all’ambasciata italiana di Islamabad la concessione di un visto umanitario, per poter poi richiedere la protezione internazionale nel nostro paese o in un altro stato dell’Unione europea.

Il codice europeo dei visti prevede che uno stato membro dell’Ue possa eccezionalmente rilasciare un visto di ingresso a un cittadino di un paese terzo se lo ritiene necessario per motivi umanitari, di interesse nazionale o derivanti da obblighi internazionali. È il caso dei due giornalisti, dato che hanno dichiarato di sentirsi in forte pericolo con il nuovo regime, avendo studiato all’università americana di Kabul, ed essendosi battuti in passato per i diritti delle donne afghane. 

La Farnesina non risponde 

Il ministero degli Esteri italiano ha ricevuto una richiesta formale in cui è stato evidenziato il pericolo a cui erano esposti i due giovani, «ma non è mai stata data alcuna risposta, rendendo necessario il ricorso d’urgenza», dice l’avvocata dell’Asgi, Nazzarena Zorzella. Il 21 dicembre Cecilia Pratesi, un’altra giudice del tribunale di Roma, ha accolto anche questo ricorso. Ordinando alla Farnesina il rilascio dei visti per motivi umanitari e scrivendo in sentenza che «se per le autorità statali rappresenta una mera facoltà, per il giudice dei diritti fondamentali rappresenta invece una attività doverosa».

«Nonostante la chiarezza dell’ordine giudiziale – spiega Zorzella – il ministero per gli Affari esteri sta opponendo una strenua quanto inaccettabile resistenza, proponendo dapprima ai ricorrenti di entrare a far parte dei corridoi umanitari, che ancora devono essere attivati. Sarebbero costretti ad attendere mesi, se non anni, per poi dover dimostrare il percorso di accoglienza e integrazione in Italia con adeguata copertura finanziaria».

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