Allo stadio Re Abdullah II di Amman va in scena il dramma sportivo della nazionale di calcio palestinese. Mancano pochi secondi al termine della partita contro l’Oman, decisiva per la qualificazione ai Mondiali del 2026. La Palestina è in vantaggio 1-0, a un passo da un’impresa senza precedenti. Ma all’improvviso succede l’inspiegabile.

Su un cross dalla sinistra il terzino palestinese Ahmad Taha sfiora la gamba di Muhsen Al Ghassani. Il tocco è quasi impercettibile, ma l’attaccante si lascia cadere. Il rigore è un verdetto senza appello. Al 95’, l’Oman pareggia. E con quel rigore dubbio svanisce il sogno mondiale di un popolo intero.

Al limite dell’area Taha crolla in ginocchio, le mani sul volto a coprire le lacrime. Sa che il suo errore è costato caro alla sua Nazionale. Un peso enorme per il giocatore più giovane della rosa. Il più discusso e allo stesso tempo il più simbolico. E nel suo silenzio a fine partita c’è tutto il dolore di un ragazzo che non avrebbe dovuto essere lì. Almeno secondo i suoi connazionali. Perchè Taha è nato in Israele, ma a marzo ha deciso di rappresentare la Palestina sui campi da calcio.

La partita

La selezione palestinese era arrivata all’ultima partita del girone con una possibilità concreta: battere l’Oman e sperare in una combinazione favorevole per accedere alla fase successiva delle qualificazioni al Mondiale 2026. Allo stadio Re Abdullah II di Amman, trasformato per una notte in casa e fortezza, i Leoni di Canaan erano chiamati a vincere. Non solo per la classifica, ma per regalare a un intero popolo un sogno in cui credere.

Dopo un primo tempo bloccato, giocato sul filo della tensione più che del talento, a inizio ripresa Klaied batte un corner da sinistra, il cross teso sul primo palo viene intercettato da Oday Kharoub che, di testa, batte il portiere. La Palestina è in vantaggio, la gioia sugli spalti e in panchina è incontenibile. La storia sembra prendere una piega imprevedibile.

Da quel momento in poi, la Palestina si stringe. I reparti si abbassano, il pressing diventa asfissiante. Al 73’ il secondo giallo costa l’espulsione a Harib Al-Saadi e lascia l’Oman in dieci uomini. In superiorità numerica e avanti di un gol a quindici minuti dalla fine, la nazionale palestinese accarezza il sogno. Ma in pieno recupero, a pochi secondi dalla fine, si consuma il dramma sportivo.

L’Oman manovra sulla trequarti sinistra, palla alzata verso il secondo palo. L’attaccante taglia alle spalle della difesa, Taha lo insegue. C’è un contatto leggerissimo: una gamba che sfiora l’altra, nulla più. L’attaccante si lascia cadere. L’arbitro non esita e fischia rigore. Sul dischetto va Al-Khaldi: rincorsa, piatto destro, portiere da un lato e palla dall’altro. È il minuto 95, il risultato è 1-1. La partita finisce.

Ahmad Taha cade in ginocchio. Si copre il volto con le mani per nascondere lacrime e amarezza. La Palestina è fuori dal Mondiale.

La storia di Ahmad Taha

Ma quel rigore concesso pesa più di un semplice errore. Perché Taha non è un giocatore qualsiasi. È, suo malgrado, un simbolo. 

Nato il 6 giugno 2001 a Kafr Qasim, cittadina araba in Israele a una ventina di chilometri da Tel Aviv, è cresciuto sospeso tra due identità. Palestinese per cultura, israeliano per cittadinanza. Da anni gioca nell’F.C. Kafr Qasim, nella Liga Leumit, la seconda divisione israeliana. È uno dei pochi arabi a emergere nel calcio israeliano senza rinunciare alle proprie radici.

A marzo 2025 arriva la scelta che cambia tutto: risponde presente alla convocazione della Nazionale palestinese. È il primo calciatore del campionato israeliano a farlo in modo esplicito e senza reticenze. Non annuncia, non spiega. Accetta la chiamata. E scende in campo con la maglia bianca della Palestina.

Una decisione che ha suscitato forti polemiche, con feroci critiche e discriminazioni ai danni del giocatore. Che la sua scelta avesse lasciato un segno profondo nello sport israeliano si è capito immediatamente. Alla prima partita di campionato dopo la sua convocazione in nazionale, i giocatori del Maccabi Jaffa si sono rifiutati di stringergli la mano prima del match contro il suo Kafr Quasim. Un gesto con cui rimarcare il disprezzo per chi sceglie di solidarizzare e riconoscersi in uno stato che Israele cerca di soffocare.

E, dopo i giocatori in campo, anche le istituzioni si sono mosse per criticare la sua scelta. Il ministro dello Sport israeliano, Miki Zohar, lo ha attaccato duramente dopo l’esordio in Nazionale, chiedendo alla federazione di intervenire con sanzioni. «Tutto questo è inaccettabile - ha dichiarato Zohar -. Un giocatore che milita nella lega nazionale israeliana non può rappresentare un’entità che non riconosce il diritto dello stato d’Israele a esistere».

Una posizione dura che non ha però sortito l’effetto sperato dal ministro. La federazione non ha al momento preso provvedimenti contro Taha, anche per non incorrere in sanzioni da parte della Fifa, che riconosce la Palestina dal 1998 e autorizza i giocatori a rappresentare le squadre nazionali per le quali detengono la cittadinanza.

Taha non rilascia interviste, non pontifica. In campo, parla col suo gioco: coperture, cross, visione e impegno. Il messaggio più forte è il suo stare lì, sulla fascia sinistra di un club israeliano e, allo stesso tempo, della Nazionale palestinese. A cavallo tra due identità, due stati, due mondi che non si riconoscono.

Il futuro

Ma Taha è giovane. A 24 anni il futuro è suo e potrà riprovare a portare la sua Nazionale al Mondiale tra quattro anni. Perché il sogno sportivo della Palestina non si interrompe qui. La sconfitta di martedì 10 giugno fa male e interrompe le speranze di vivere un’estate mondiale tra un anno. «Abbiamo lottato fino alla fine - il commento della federazione su Instagram - e difeso il sogno di un popolo aggrappato alla speranza di un domani migliore».

Ma quel sogno non si spegne con questo pareggio: «Questo è il calcio - ha commentato ai microfoni di Marca un dirigente della nazionale palestinese -. Oggi abbiamo perso, ma un giorno toccherà a noi sorridere».

E chissà che quel giorno possa essere proprio al termine delle qualificazioni ai Mondiali del 2030. Magari in uno stadio in Palestina e non più dalla Giordania, dove la selezione palestinese è costretta a giocare. Un sogno condiviso: «Spero che un giorno - ha detto a fine partita il segretario generale della federazione palestinese, Firas Abu Hilal - possiate venire tutti a vederci giocare in Palestina».

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