Un cross dalla destra che filtra fino al secondo palo. Junior Arias che quasi non crede ai suoi occhi quando si trova completamente libero davanti al portiere e insacca di prima. Poi la corsa a braccia aperte mettendo in mostra la maglia nera, rossa, bianca e verde con il motivo di una kefiah stampato su tutta la divisa mentre sul petto campeggia lo sponsor “Bank of Palestine”.

I tifosi esultano sventolando bandiere palestinesi, quasi increduli davanti a una cavalcata imprevedibile a inizio stagione che fa sperare in un titolo che manca dal 1978. Ma non ci troviamo nella Striscia di Gaza o nei territori occupati della Cisgiordania. Il Club Deportivo Palestino, infatti, gioca le sue partite a oltre 13mila chilometri dal Medio oriente: a Santiago del Cile

Storia del Deportivo

È il 20 agosto 1920 a La Cisterna, quartiere popolare della periferia di Santiago, quando un gruppo di immigrati palestinesi decide di dar vita a un sogno semplice, ma al contempo di una potenza enorme: fondare una squadra di calcio che rappresentasse la loro terra natale in Cile. Guidati da Elías Jadue, figura carismatica e visionaria della comunità, diedero così vita al Club Deportivo Palestino. I colori, inevitabilmente, sono quelli della loro bandiera: rosso, verde, bianco e nero.

Non sognavano la gloria, ma una realtà che potesse rappresentarli, utilizzando lo sport come mezzo di inclusione. Così la comunità palestinese in Cile iniziò a radunarsi sui polverosi campi di periferia per sostenere il club nel campionato dilettantistico. Nessuna velleità di classifica, nessuno stadio o ambizioni personali, ma su quei campi iniziò a nascere qualcosa di più profondo: un senso di identità condivisa. 

Il club divenne simbolo di appartenenza, mantenendo vivi usi, lingua e orgoglio nazionale attraverso il calcio attirando attenzioni anche dalla loro terra d’origine. 

Negli anni ’40, grazie al sostegno crescente della comunità e all’arrivo di nuove generazioni, il Deportivo Palestino cominciò a strutturarsi meglio, con dirigenti, allenatori e una visione più chiara. Questo impegno portò, nel 1952, all’ammissione al campionato di Segunda División cilena. Era il primo passo ufficiale verso il professionismo, ma anche un traguardo per una comunità che, con passione e memoria, aveva costruito molto più di una squadra. Come spiega perfettamente il motto del club: «Más que un club, un pueblo» – molto più di un club, un popolo.

E infatti c’è un intero popolo a sostenerlo. Le partite del Deportivo Palestino sono sempre più spesso trasmesse in Palestina da Al Jazeera e vengono seguite da milioni di persone nell’area. Un seguito che portò il club a far installare tre maxi schermi a Ramallah in occasione della partita di Copa Libertadores contro il River Plate nel 2019. 

Il Cile e la Palestina

D’altra parte il Cile accoglie, se si escludono i paesi arabi, la più grande comunità palestinese al mondo. Una presenza così radicata nel tessuto sociale del paese che esiste un vecchio detto cileno, che afferma che ogni città deve avere tre cose per essere considerata tale: un prete, un poliziotto e un palestinese. Il fenomeno dell’immigrazione dalla Palestina ha radici profonde, che risalgono agli ultimi decenni del XIX secolo quando migliaia di palestinesi, principalmente provenienti dalla regione di Betlemme, dalla Galilea e da altre aree della Palestina ottomana, iniziarono a emigrare in cerca di migliori condizioni di vita e di opportunità economiche. 

Molti di questi migranti erano fuggiti da condizioni di povertà, instabilità politica e tensioni sociali nell’Impero Ottomano, trovando nel Cile un paese in forte crescita economica e aperto all’immigrazione. La diaspora si consolidò ulteriormente dopo la Nakba del 1948, quando la nascita dello Stato di Israele causò l’esodo di centinaia di migliaia di palestinesi. Molti di loro trovarono rifugio nelle già esistenti comunità cilene, rafforzandone l’identità e la coesione.

Ad oggi in Cile la comunità palestinese conta tra le 400 e i 500mila persone come frutto di una combinazione di un’emigrazione precoce, la stabilità e l’accoglienza cilena, e le successive ondate di rifugiati.

La maglia della discordia

Il legame del club con la Palestina si è andato sempre più rafforzando portando la squadra a prendere più volte posizione per la causa palestinese. Un appoggio che è più volte finito anche sulle maglie della squadra in occasione di partite ufficiali, come dimostra la divisa di questa stagione che riporta il motivo della Kefiah, simbolo della resistenza palestinese. 

Nel 2014 il Deportivo Palestino presentò una maglia destinata a restare nella storia del club e non solo. Non tanto per il motivo a strisce verticali bianche rosse e verdi, ma per i numeri sulla schiena dei giocatori: al posto del numero "1" sul retro delle divise appariva una mappa della Palestina storica, quella precedente alla creazione dello stato di Israele nel 1948.

Un gesto dal valore simbolico forte: voleva rappresentare la memoria collettiva della diaspora palestinese, riaffermare l'identità del club e onorare le radici dei fondatori. La nuova divisa suscitò entusiasmo tra i tifosi del Palestino e un'ondata di solidarietà tra le comunità all’estero e tra i sostenitori della causa palestinese. Ma le reazioni non furono solamente positive. 

La comunità ebraica protestò immediatamente, accusando il club di voler «negare l'esistenza di Israele» e usare il calcio per fini politici. La polemica assunse anche una dimensione internazionale, con l’ambasciata israeliana che si unì alle critiche, definendo la maglia una provocazione. La Federazione calcistica cilena intervenne e, il 17 gennaio 2014, il club fu multato di circa 1.300 dollari e obbligato a ritirare la maglia, giudicata «contraria allo spirito sportivo».

Una presa di posizione netta da parte della federazione subito criticata dal club che, negli anni successivi, ha continuato a esprimere visivamente la propria identità, pur evitando “gesti estremi” per evitare ulteriori sanzioni. Da ultima una maglia speciale, lanciata in occasione della giornata della Nakba il 15 maggio, in cui il motivo tipico della kefiah si ripete su tutta la divisa mentre sul retro due mappe della Palestina storica compongono il numero 11.

Una maglia che, proprio per questo motivo, non sarà utilizzata sui campi da gioco ma solamente venduta online in edizione limitata per finanziare i progetti in un campo profughi in Palestina. 

Sui campi, però, il Palestino porta un pezzo di Gaza ad ogni partita. Letteralmente. Dall’inizio di questa stagione nel gagliardetto che a inizio partita il capitano del club scambia con il suo omologo avversario vi è incastonata una piccola pietra raccolta dalle macerie della Striscia.

Un viaggio, documentato sui social, che ha portato una testimonianza diretta della devastazione di Gaza sui campi da calcio della massima competizione cilena. La pietra ha viaggiato per oltre 13mila chilometri per arrivare nella capitale cilena, dove è stata rotta in pezzi più piccoli che, una volta incastonati nella resina per proteggerli dallo scorrere del tempo, sono stati cuciti sui gagliardetti che verranno utilizzati nel corso della stagione in campionato e in coppa.

Uno scudetto migrante

E la vicinanza, anche fisica, con Gaza sta dando forza al Palestino. Dopo undici giornate di campionato (la competizione finirà il 7 dicembre) il club, anzi «todo un pueblo», è al primo posto con 22 punti e fa sognare i propri tifosi, in Cile come in patria. Ma sulla strada che porta al titolo di campione cileno, il Palestino dovrà vedersela con un’altra squadra che ha origine a migliaia di chilometri: l’Audax Italiano. Nato nel 1910 da un gruppo di giovani immigrati italiani, l’Audax è diventato punto di riferimento per la comunità italiana in Cile utilizzando come colori sociali il verde, bianco e rosso del tricolore. 

Da una parte i colori della Palestina e il peso della memoria, dall’altra l’orgoglio della comunità italiana che ha fatto del calcio un ponte con la madrepatria. Più che una sfida sportiva, all’orizzonte si staglia un lungo confronto tra due mondi migranti che hanno trovato nella maglia un modo per restare se stessi lontano da casa. Un derby di diaspora, emozioni e appartenenza.

Un derby che, se le due squadre continueranno la loro cavalcata, potrebbe accompagnare i tifosi cileni per i prossimi mesi. Da un lato un club, il Palestino, che sogna il suo terzo titolo nel momento più buio per la sua terra d’origine. Dall’altra una squadra che di campionati ne ha già vinti quattro e che spera di far esultare i quasi sessantamila italiani che vivono in Cile.

Il Club Deportivo Palestino, dunque, non è soltanto una squadra di calcio: è un emblema vivente di memoria, identità e resistenza. In un mondo dove le radici spesso si perdono nella distanza, il Palestino ha saputo trasformare il pallone in uno strumento di coesione, unendo generazioni di cileni di origine palestinese attorno a un simbolo condiviso.

Ogni gol, ogni maglia, ogni partita è un frammento di una storia più grande: quella di un popolo lontano che ha trovato, a 13.000 chilometri da casa, un campo su cui continuare a esistere, lottare e raccontarsi. In tempi di conflitto e fratture, il Palestino mostra come lo sport possa essere anche memoria, dignità e comunità. E mentre la guerra a Gaza continua, le partite di calcio del Palestino sono diventate un luogo di solidarietà, lutto e celebrazione dell'identità palestinese.

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