Ciò che resta di casa Agnelli fa venire in mente Vittorio Gassman (Il sorpasso, 1962) che sull’Aurelia il giorno di Ferragosto saluta sfottente la moto con sidecar con sopra padre, madre e tre figli: «Le belle famiglie italiane!».

Il duello rusticano tra cugini che ha portato alla cacciata dal vertice della Juventus di Andrea Agnelli e di tutti i suoi cari è solo l’ultimo episodio di una saga atroce ma anche di una fiction di quart’ordine che insegna alle anime semplici come i soldi non facciano la felicità. E così John Elkann, capofamiglia per designazione dinastica decisa da Gianni Agnelli quando il ragazzo aveva 21 anni e non si era ancora laureato in ingegneria, riesce finalmente a fare fuori il cugino che cominciò a sfidarlo vent’anni fa, alla morte dell’avvocato, zio di Andrea e nonno di John.

Se non si faranno accecare da quella che Silvio Berlusconi stigmatizza come invidia sociale, i lettori proveranno pena per Elkann che da anni è in causa con sua madre Margherita Agnelli e con i cinque fratelli nati dal secondo matrimonio di lei, la quale è riuscita anche a denunciare sua madre Marella Caracciolo di Castagneto che solo la morte ha liberato dalla persecuzione giudiziaria dell’unica figlia. E tutto non per un passo carrabile, ma proprio per il testamento di nonno Gianni che gli affetti (ex) più cari di John contestano. Sì, l’atto di incoronazione lasciato da un uomo ossessionato dalla continuità dinastica, come se in gioco non ci fosse una fabbrica di automobili ma un titolo nobiliare, come se il Lingotto non fosse la sede di una multinazionale ma un principato.

La storia della Juventus conferma l’assunto. Come la logica dinastica ha provocato la distruzione sostanziale dell’industria dell’auto in Italia, anche la faida privata tra John e Andrea è stata combattuta sulla pelle di una società quotata in borsa per rifilare le perdite al cosiddetto parco buoi, gli azionisti di minoranza.

Disastro economico

Partiamo dalla fine. Dal 9 marzo 2020, quando la borsa italiana toccò il punto più basso in seguito all’annuncio del lockdown, l’indice generale del mercato azionario ha guadagnato il 50 per cento (nonostante il protrarsi della pandemia e la guerra in Ucraina), mentre le azioni Juventus hanno dimezzato il loro valore.

La gestione di Andrea Agnelli è stata trionfale dal punto di vista degli scudetti vinti, un po’ meno come risultati internazionali (zero tituli), un disastro dal punto di vista economico e della reputazione. E così è arrivato, con grande ritardo, il momento in cui il vertice societario, letteralmente braccato dalla procura di Torino per reati finanziari connessi all’endemico e generalizzato imbroglio delle plusvalenze, viene fatto fuori in blocco. Fuori il presidente Agnelli, fuori il suo vice Pavel Nedved, fuori l’amministratore delegato Maurizio Arrivabene.

Il gruppo è cementato da antichi legami personali con il presidente. Agnelli iniziò la sua carriera alla Philip Morris con Arrivabene come capo. E il padrone, Elkann, non solo li fa dimettere tutti, ma li umilia mandando di fatto a commissariare la società, come direttore generale, il suo uomo di fiducia, Maurizio Scanavino.

Nella logica ottocentesca cara al nonno Gianni, Scanavino si sarebbe definito “il fattore”. È già amministratore delegato della Gedi, società editoriale di Repubblica, Stampa e Secolo XIX, può ben fare anche il direttore generale di un’altra società quotata, laddove non sono competenza e tempo disponibile a dettare la scelta dei manager, ma il potersene fidare. Non solo. Come segnale lo stesso giorno arrivano anche le dimissioni dalla Ferrari del direttore sportivo Mattia Binotto, che con la Juventus non c’entra ma è un altro uomo di Arrivabene.

L’archetipo della guerra familiare per interposti manager è la cacciata di Vittorio Ghidella, numero uno di Fiat Auto che aveva riportato la casa torinese agli antichi splendori sfornando all’inizio degli anni Ottanta successi internazionali come la Uno e la Lancia Thema. L’ingegnere di Vercelli aveva due difetti capitali agli occhi dell’Avvocato: voleva dare un futuro alla Fiat fondendola con un altro colosso, per esempio la Ford, togliendo così alla famiglia lo scettro; era considerato fedele a Umberto Agnelli e non al fratello maggiore. Così Cesare Romiti, legato all’avvocato e quindi ostile a Umberto e a tutti quelli che non gli mancavano di rispetto, con un vero e proprio complotto di corte fa fuori Ghidella nel 1988 dando inizio al declino della Fiat.

L’Avvocato aveva scelto come erede Giovannino, figlio di Umberto, perché il suo primogenito Edoardo era considerato inaffidabile, forse pericoloso. Quando Giovannino muore di cancro a 33 anni, nel 1997, il ruolo di erede designato passa a John, detto Jaki, primogenito di Margherita e del giornalista Alain Elkann. Andrea, cinque mesi più grande di John, non viene preso in considerazione. Sette anni dopo il mondo è cambiato. L’Avvocato è morto (2003), ma un anno dopo è morto anche Umberto. La Fiat è affidata a un altro fattore che piace alle sorelle di Gianni e Umberto, Luca di Montezemolo, e a Sergio Marchionne, il manager che era stato adocchiato da Umberto. È il momento più difficile per la famiglia.

La casa automobilistica sembra agonizzante ed è a rischio scalata e John per salvare il controllo familiare dà il via a una delle più spericolate (e sostanzialmente disoneste) operazioni finanziarie di sempre, organizzata dai due storici consulenti dell’Avvocato, Gianluigi Gabetti e Franzo Grande Stevens. Passerà alla storia come “equity swap”, se ne interesseranno Consob e magistratura con l’incisività richiesta da soggetti potenti, quindi senza risultati.

Il giorno prima dell’operazione, Andrea Agnelli esce allo scoperto e si fa intervistare dal giornalista del Foglio Marco Ferrante. Il suo è un atto di accusa al cugino: «Dobbiamo proteggere la Fiat nel modo più corretto. Ma non si tratta di riconquistare una roccaforte perduta. Si tratta invece di immaginare una strategia convincente per il futuro».

Lotta senza prezzo

Da allora il duello è silenzioso e ininterrotto. Complicato dal fatto che John comanda ma Andrea è il secondo azionista della cassaforte di famiglia, nota come “accomandita”. E dal fatto che, quando le persone sono ricche in miliardi di euro, i loro conflitti non si risolvono con i bonifici, perché in gioco ci sono beni senza prezzo come il ruolo, l’identità, l’orgoglio, il puntiglio, magari qualche trauma adolescenziale o la struttura della vita affettiva.

E così rimane paradossalmente da spiegare perché Elkann abbia impiegato tanto tempo a far fuori il cugino nonostante gli imbarazzanti scivoloni degli ultimi anni. Basta andare a memoria e ricordare l’inchiesta della giustizia sportiva sugli opachi rapporti di Agnelli e del suo cerchio magico con gli ultrà delle curve infiltrati dalla ’ndrangheta. Con il particolare inquietante della morte di un capo della tifoseria, Raffaello Bucci detto Ciccio, che l’8 luglio 2016 si suicida buttandosi dallo stesso viadotto autostradale sulla Torino-Savona da cui, nel novembre 2000, si era lanciato Edoardo Agnelli. In realtà in entrambi i casi la tesi ufficiale del suicidio ha suscitato più di un dubbio.

Si potrebbe anche parlare della clamorosa figura barbina fatta a settembre 2020 con l’esame di italiano addomesticato per il centravanti uruguaiano Luis Suárez, bisognoso di un passaporto italiano per essere ingaggiato, e conseguente inchiesta giudiziaria. Ma il vero punto di svolta negativa per la gestione della Juventus di Andrea Agnelli è l’acquisto di Cristiano Ronaldo nel luglio 2018, un investimento colossale per vincere la Champions League e sistemare i conti della società, e invece i conti serve solo a scassarli definitivamente. Il direttore sportivo Beppe Marotta, unanimemente considerato l’artefice di otto anni di successi della Juve targata Andrea, è contrario all’operazione Ronaldo, ma Agnelli dà fiducia al suo amico Fabio Paratici che la chiude. Per di più Marotta è accusato di parlare troppo con Elkann, che pure sarebbe il padrone, e per questo viene cacciato.

Nella primavera 2021 il colpo finale alla reputazione di Andrea Agnelli, con il fallimento della cosiddetta Superlega, l’idea di fare un supercampionato europeo delle squadre più forti e ricche, lasciando alle altre le briciole del business. Lì anche i giornali più fedeli alla casa regnante cominciano a ipotizzare che Elkann voglia fare fuori il cugino. Il quale capisce che il suo sogno di meritarsi con i risultati della Juventus la promozione alla guida della Ferrari (che in borsa vale 50 volte di più) sta sfumando.

Ma chissà se, pur inanellando successi sportivi e finanziari, avrebbe ottenuto dal cugino l’agognato premio. Drammi familiari appetitosi per una fiction. Ma ormai completamente scollegati dalla realtà sempre più triste dell’economia italiana e dei suoi poveri che, per definizione data da Lavinia Borromeo, moglie di John Elkann, «sono le persone costrette a lavorare per vivere».

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